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mercoledì 19 giugno 2019

Jean Auguste Dominique Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone


C’è sempre almeno un motivo per visitare le mostre di Palazzo Reale, di solito allestite in modo impeccabile. E anche questa esposizione non fa eccezione. In una delle ultime sale è esposto il gigantesco Napoleone di Ingres ('Napoleone sul trono imperiale'), definito dai curatori ‘icona glaciale, ieratica, simbolica’. Entrare nella sala, avvolta dalla penombra, con le pareti rivestite di un rosso che si avvicina moltissimo al porpora dell’immenso velluto che avvolge Napoleone, e trovarsi a tu per tu con … l’imperatore è una vera emozione. Qualunque cosa pensiate di Ingres, di questo genere di pittura e di Napoleone stesso, non si può non restare colpiti da questa immensa tela e dal suo fascino magnetico, vi sarà impossibile, passarle semplicemente davanti. E così lo sguardo si sofferma sul velluto rosso e brillante, sui riflessi delle sfere d’avorio del trono, sull’oro delle decorazioni, sul viso bianchissimo quasi eburneo di Napoleone, dipinto come un Giove, forse, o come un’icona bizantina – è stato detto: lo sguardo immobile, fissa lontano e fa sentire a chi guarda tutta la sacralità che l’immagine doveva ispirare. Non ebbe nell’immediato il successo che Ingres si aspettava. Fu aspramente criticato perché non somigliava davvero a Napoleone, era troppo immobile e privo di qualsiasi traccia di vita.
Jean-Auguste-Dominique Ingres - Napoleone sul trono imperiale (1806)

Non sono riuscita ad afferrare il filo logico di questa mostra – per altro molto godibile – che intreccia storie diverse, incentrate sull’arte degli anni tra la fine del Settecento e i primi venti del 1800, di cui offre un’ampia rassegna con dipinti, disegni, miniature, statue. L’esposizione inizia dove anche Jean-Auguste-Dominique Ingres (Montauban 1780, Parigi 1867) aveva iniziato la sua formazione: nell’atelier parigino di Jacques-Louis David, con l’esposizione di alcuni nudi maschili, prova obbligatoria per gli studenti dell’Accademia. Il più emozionante però è quello del maestro, di David, appunto - pittore geniale che alla fine del Settecento aveva imposto un passo nuovo alla pittura - il cosiddetto Patroclo: di spalle, seduto su un drappo sontuosamente rosso, il disegno anatomico – perfetto – è reso meno accademico da un colore morbido e sfumato.
Il racconto della mostra prosegue sottolineando il successo delle donne pittrici, celeberrima Elisabeth Vigée Le Brun e i suoi ritratti della regina Maria Antonietta, ma qui mi piace sottolineare la presenza di Marie-Guillemine Benoist, delizioso il suo autoritratto con i capelli lunghissimi trattenuti da un nastro e una sorta di peplo greco che le scopre una spalla. Dolcissima e determinata al tempo stesso: l’energia con cui stringe i pennelli la dice lunga sulla personalità di questa artista, che aprì per un breve periodo un atelier al quale potevano iscriversi solo allieve donne.
Marie-Guillemine Benoist - Autoritratto (1790)

Poi si entra nel vivo dell’esposizione: Napoleone e la sua famiglia, fratelli, sorelle e cognati che furono sparpagliati da Bonaparte su tutti i troni disponibili. Le campagne d’Italia e i rapporti con Milano, in particolare, dove Napoleone fu incoronato Re d’Italia nel 1805. Arte e politica si intrecciano per raccontare le vicende di Bonaparte con ritratti, immagini di propaganda delle sue campagne militari, la riproduzione (opera di Francesco Rosaspina) del fregio che ornava la sala delle Cariatidi (proprio nel Palazzo Reale) dipinto da Andrea Appiani con le immagini dei fasti di Napoleone, 39 dipinti monocromatici a tempera che imitavano i bassorilievi antichi. Il fregio fu distrutto nel 1943 dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Tre gigantesche teste di marmo di Napoleone, tra queste quella scolpita da Canova, Napoleone come un imperatore romano, immagine purissima del potere.
Una piccola sezione della mostra è per Giovanni Battista Sommariva, uno dei protagonisti della Milano napoleonica, collezionista e mecenate, qui sono esposte tra l’altro alcune deliziose miniature che riproducono opere celebri dell’epoca.
L’ultima parte del percorso espositivo è interamente dedicata ad Ingres. Rimarrà un po’ deluso chi cerca i ritratti delle dame francesi e i loro preziosi abiti alla moda, restituiti da Ingres in tutta la loro frusciante bellezza oppure le celebri odalische con i turbanti intrecciati di stoffe sontuose, immerse in un’atmosfera di fiaba orientale. In mostra c’è solo la versione in chiaroscuro (una sorta di monocromo) de ‘La grande odalisca’, alcuni ritratti maschili, una delle versioni di ‘Raffaello e la Fornarina’ (Ingres aveva una vera venerazione per Raffaello di cui sognava di poter essere l’erede e dalle cui opere aveva derivato il culto per la bellezza femminile), il dipinto con Francesco I che accoglie tra le braccia Leonardo da Vinci morente, in omaggio al cinquecentenario di Leonardo. Pitture di storia queste ultime, del genere “troubadour” , che rappresentavano con poca verità e molta fantasia personaggi ed accadimenti del Medioevo e del Rinascimento.


Jean-Auguste-Dominique Ingres - Grande Odalisca, versione in chiaroscuro (1830 ca.)


E poi ci sono i disegni, nei quali l’abilità di Ingres si dispiega libera, lontana dalle costrizioni del quadro ufficiale, sono freschi, vivaci e da ammirare uno per uno: gli schizzi del Duomo di Milano, della chiesa di San Maurizio, alcuni deliziosi visi di donna.
I ritratti, quasi tutti maschili, hanno occhi penetranti fissi in quelli dello spettatore oppure sguardi malinconici persi altrove, vitalità, linee morbide e sfondi bruni che si accendono grazie al bianco brillante di un colletto, al grigio perla del nastro di una cravatta. E’ come se questo artista avesse due anime o meglio se dipingesse solo con il cuore i ritratti e solo con la ragione, molta tecnica e poco sentimento il resto della sua produzione. Molto diversi dai ritratti sono infatti i quadri di storia o a tema religioso: mostrano panneggi ‘all’antica’ scolpiti in modo tagliente, gesti enfatici e poco naturali, colori smaltati studiati sul contrapporsi delle tinte complementari (in mostra 'La consegna delle chiavi a San Pietro'). Un’eccezione è la figura leggera e aggraziata di Stratonice in ‘Antioco e Stratonice’, avvolta in un abito rosa pallido panneggiato con elegante leggerezza.

Jean-Auguste-Dominique Ingres - Antioco e Stratonice (1840)

Se uno degli obiettivi della mostra era evidenziare il ruolo di Ingres come figura chiave di questa epoca di contraddizioni, c’è riuscita perfettamente. Si evitano i termini ‘neoclassicismo’ e ‘romanticismo’ perché le etichette rigide non sono più ritenute utili a spiegare le caratteristiche del gusto e di un’epoca, ma certo la pittura di Ingres ha una sua dualità che è chiarissima raffrontando due tele giganti in mostra: il Napoleone di cui ho già detto e l’atmosfera onirica de ‘Il sogno di Ossian’, che doveva decorare la camera da letto di Napoleone nel palazzo del Quirinale a Roma. Smaltato e perfettamente nitido Napoleone, immerso in un sogno soffuso Ossian, il colore è solo nel mondo dei vivi dove Ossian giace appoggiato alla sua lira, il mondo dei defunti, popolato di fantasmi è avvolto in una fredda tonalità grigia.
Ingres muore nel 1867 quando Claude Monet ha 27 anni, Eduard Manet ha già l’Olympia – per certi aspetti versione rivoluzionaria delle odalische di Ingres - , sta per nascere l’impressionismo che avrebbe negato ed abolito il disegno che Ingres amava così tanto. Sarà un altro grandissimo disegnatore, Pablo Picasso, a riscoprire la modernità di Ingres.


La mostra è a Palazzo Reale Milano fino al 23 Giugno 2019.

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