Amo profondamente la pittura ed ogni forma di arte.

Il mio blog è per coloro che sanno scoprire cose nuove anche a pochi km di casa, sono curiosi della vita e credono che la felicità si possa conquistare amando le piccole cose.

giovedì 14 marzo 2024

Moroni (1521-1580). Il ritratto del suo tempo

Una qualsiasi mostra allestita alle Gallerie d’Italia a Milano in piazza della Scala sicuramente incanta lo spettatore che entra e si trova circondato da un ambiente molto suggestivo. Ci troviamo all’interno di Palazzo Beltrami, ex sede della Banca Commerciale Italiana, costruito con eleganza e impiego di materiali di pregio dall’architetto Beltrami a inizio ‘900. Si rimane affascinati dalla bellezza del salone di ingresso in cui ci si muove su un pavimento prezioso illuminato dall’alto da un lucernario con un gioco sapiente di alternanza tra luci e ombre. Entrate nel tardo pomeriggio verso il tramonto.

L’effetto magico è ancora maggiore se la mostra non è una ‘qualsiasi mostra’, ma un’esposizione imperdibile come quella attualmente in corso che ha per protagonista Giovanni Battista Moroni (1521 ca, 1580), uno dei più fini ritrattisti del Cinquecento.

Giovanni Battista Moroni - Ritratto di podestà (1558-1562 Bergamo Accademia Carrara)


Giovanni Battista Moroni nacque ad Albino in provincia di Bergamo poco dopo il 1521 in quello che era il dominio di terra della Serenissima Repubblica di Venezia, al confine con lo stato di Milano, all’epoca governata dagli Spagnoli. Questa vicinanza anche culturale di Bergamo a Milano fa si che Moroni, veneto per nascita, si inserisca in quella tradizione figurativa tipica del territorio lombardo che Roberto Longhi definiva ‘pittura della realtà’ - ovvero “la pittura come registrazione del visibile” nelle parole di Longhi– che inizia con Foppa e attraverso, tra gli altri, Moretto, Savoldo, Moroni arriva fino a Caravaggio. La tesi longhiana (Moroni tra i precedenti di Caravaggio) sembra ribadita anche dai curatori, due veri specialisti del pittore di Albino: Simone Facchinetti e Arturo Galansino.

La mostra rende conto di tutta l’attività di Moroni che non fu solo ritrattista ma anche pittore di pale d’altare e dipinti a tema religioso. Non una monografica in senso stretto però: le opere di Moroni sono messe a confronto con quelle di artisti a lui contemporanei per inquadrare il contesto in cui il pittore operava e consentire utili raffronti.

Il percorso espositivo si apre con grandi pale d’altare sistemate in modo scenografico nel salone d’ingresso in cui l’attenzione viene catturata per la verità non da un’opera di Moroni, ma del suo maestro, il bresciano Alessandro Bonvicino detto il Moretto (presso la cui bottega Moroni è documentato nei primi anni 40; in mostra è presente un taccuino di appunti raccolti da Moroni negli anni di apprendistato): la grandiosa Madonna con il Bambino in trono tra i santi Eusebia, Andrea, Domneone e Domno

Alessandro Bonvicino detto il Moretto - Madonna con il Bambino in trono tra i Santi Eusebia, Andrea, Domneone e Domno (1536-1537, Bergamo Chiesa di Sant'Andrea Apostolo)

Il dettaglio del vassoio di peltro da cui è scivolato via un frutto e gli abiti dei protagonisti – quello di velluto rosa e raso color oro di Santa Eusebia - hanno una presenza coinvolgente; notate anche i due santi sulla destra: si tengono familiarmente sottobraccio, un dettaglio amabilissimo. E sempre Longhi vedeva nel vassoio ricolmo di frutta un indubbio precedente per la nascita del genere della natura morta (che ancora una volta porta al nome di Caravaggio e alla sua Canestra dell’Ambrosiana).

E’ impossibile raccontare il fascino di questa mostra in poche righe, mi limito qui a qualche nota e pochi suggerimenti per poterla apprezzare come merita. Le opere sono moltissime e coprono più di 30 anni di attività del pittore.

Sulle pareti si alternano decine di ritratti, solo visi colti in un attimo, mezze figure o grandi e spettacolari ritratti a figura intera. E se per le opere religiose il Moretto fu il maestro reale e l’ispiratore per tutta la carriera di Moroni, Lorenzo Lotto fu l’ideale punto di riferimento per i ritratti. Il Ritratto di Giovane di Lorenzo Lotto proveniente dalle Gallerie dell’Accademia ha lo sguardo insondabile e profondo che si ritrova in alcuni dipinti di Moroni, anche se ambientato in una ‘scena’ molto più mossa e variata di quelle che saranno tipiche del pittore di Albino (delicatissimi i petali di rosa, la leggerezza della camicia bianca sotto l’abito nero, le pagine del libro arricciate che sembrano crepitare).

Lorenzo Lotto - Ritratto di giovane Gentiluomo (1530 ca., Venezia, Gallerie dell'Accademia)


Moroni ritrae i suoi modelli senza disegno preparatorio, stendendo direttamente i colori sulla tela e a questo si deve in parte la fresca immediatezza dei suoi ritratti che sono presenze tangibili. Osservateli tutti da vicino, nessuno è uguale all’altro, anche se la struttura compositiva delle opere è simile: uno sfondo in colore neutro per i formati più piccoli, muri sbrecciati e colonne diroccate a ricordare la caducità della vita per i dipinti più imponenti, ma il tono di fondo è sempre tenue in modo da far risaltare la figura del personaggio ritratto, come se intorno al modello circolasse davvero l’aria.

Pochi ritratti sono decisamente frontali, spesso il busto del modello è disposto in diagonale, la testa rivolta verso di noi, una luce radente ad illuminare i tratti del viso. E anche su questa luce ci sarebbe molto da raccontare: non il lume diffuso dei dipinti del rinascimento ‘toscano-centrico’, ma una luce indirizzata, mirata a dare tridimensionalità e risalto al modello. Tutti in qualche modo ci guardano, cercano il nostro sguardo, la nostra attenzione e questo rende anche i ritratti ‘ufficiali’ più accostanti. Confrontate un qualsiasi ritratto di Moroni con il Ritratto del procuratore Jacopo Soranzo di Tintoretto (Jacopo Robusti) sempre in mostra, l’uomo ha lo sguardo rivolto verso un lontanissimo altrove, ci oltrepassa e non intrattiene alcun rapporto con noi, è distante. Un ritratto ufficiale in cui l’importanza del modello è evidenziata anche dall’essere così inafferrabile.

I ritratti di Moroni sono ‘ritratti al naturale’, non idealizzati, non aggiungono niente alle fattezze reali del modello che risultava perfettamente riconoscibile, dipinto così come era, senza i filtri dell’immaginazione, senza mascherare i difetti o una fisionomia poco aggraziata. Tutti inconfondibili: seri, pensierosi, energici, vagamente malinconici a volte elegantissimi, giovani e più anziani, mai distanti. Paradossale che di queste donne e uomini che ci sfilano davanti e che ci sembra di riconoscere tanto sono ‘presenti’ conosciamo pochissimo. Solo in pochi casi la loro storia è giunta fino a noi.

Prendetevi il tempo per visitare questa mostra, senza fretta. Soffermatevi sui particolari, osservate i dettagli, i gioielli delle dame.

le foto dei dettagli sono mie



La donna del Ritratto di donna con ventaglio proveniente da Amsterdam indossa una straordinaria collana di piccole perle intrecciate, un ricco medaglione, il suo abito damascato rosso corallo ha un disegno sontuoso, riprodotto con estrema abilità.

Giovanni Battista Moroni - Ritratto di Donna con Ventaglio (1576-1579 ca., Amsterdam, Rijksmuseum) ©AmsterdamRijksmuseum


Il ventaglio di piume bianche e rosa di Isotta Brembati ha la sofficità di un lussuoso piumino da cipria – Moroni pittore della realtà anche per questa abilità nel riprodurre il valore tattile dei materiali. Come non lasciarsi affascinare dall’abito rosa trapuntato d’argento nel Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (noto anche come Il Cavaliere in rosa) con le scarpette di velluto finemente lavorate e quei fiocchi rosa e argento che trattengono le calze e sembrano appena annodati.


Giovanni Battista Moroni - Ritratto di Gian Girolamo Grumelli (1560, Bergamo, Palazzo Moroni, courtesy Lucrezia Moroni)

E poi una profusione di abiti neri, il nero introdotto da Carlo V alla corte di Spagna aveva raggiunto una diffusione molto ampia al tempo di Filippo II, colore sobrio, elegante ma anche segno di ricchezza perché era complesso e costoso tingere i panni di nero. I neri di Moroni sono lucidi come la seta, morbidi come il velluto, pesanti quando rappresentano stoffe damascate, ricchi di riflessi e toni cangianti. Osservateli tutti. E quanti libri sono presenti in questi ritratti, disinvoltamente aperti tra le mani e allora si intravedono righe fitte di scrittura, appoggiati sui parapetti o impilati sullo sfondo, le pagine nascoste da semplici rilegature tenute strette da strisce di tessuto.





Una parola sui dipinti a tema religioso: pale d’altare e devoti che pregano non riescono ad affascinarci tanto quanto i ritratti, siamo in piena Controriforma, le opere si fanno più convenzionali, regole precise imbrigliano la fantasia degli artisti e certo non rappresentano la parte più suggestiva dell’opera di Moroni. Ancora una volta sono i dettagli a catturare lo sguardo: i colori spesso giocati su tonalità fredde, l’abilità con cui Moroni giovanissimo nella Madonna con il Bambino in gloria e Santi proveniente dalla Cattedrale di Trento rappresenta i guanti di San Gerolamo che sembrano di morbidissima nappa, alcuni ritratti nei dipinti di devozione privata che raffigurano le cosiddette ‘orazioni mentali’.

E da ultimo, a chiudere il percorso, Il sarto, forse il dipinto più celebre di Moroni, atterrato dalla National Gallery di Londra e qui i curatori meritano un grazie speciale per aver fatto arrivare questa opera incantevole. 

Giovanni Battista Moroni - Il Sarto (1572-1575 ca., Londra The National Gallery)


Elegantissimo con una giubba color crema chiusa da una fila di piccoli bottoni e pantaloni a sbuffo rossi, la barba curata, gli occhi grigi è in piedi di fronte al suo tavolo da lavoro. Si volge verso di noi che lo abbiamo interrotto mentre tagliava un panno nero – si vedono i segni del gesso con il quale ha tracciato il modello sulla stoffa – con uno sguardo non infastidito per essere stato interrotto, attento e insieme inafferrabile, come se ci ascoltasse o aspettasse da noi una parola. Perché noi siamo lì di fronte a lui, accanto al pittore che lo sta ritraendo, fissando sulla tela proprio quell’istante. Non sappiamo nemmeno il suo nome ‘Il sarto’, tutto qui, eppure guardatelo e vi sembrerà di conoscerlo da sempre.

La mostra è a Milano alle Gallerie d'Italia  fino all'1 Aprile 2024.















venerdì 28 aprile 2023

ATTIMI - Gli acquerelli di Manet - lettera a Isabelle Lemonnier

Inauguro oggi una nuova rubrica, ATTIMI. Fino all’ultimo sono stata in dubbio sul nome, ATTIMI oppure FLASH. Entrambi evocano immediatezza, brevità: ho scelto ATTIMI. FLASH è effimero, immediato ma evanescente, mentre ATTIMI mi sembra conservi un che di duraturo nel ricordo. Non scompare, è breve nella durata, ma non sparisce mai del tutto. Un attimo può restare per sempre e lascia qualcosa sulla quale si può continuare a pensare a lungo. Dunque, ATTIMI. Parlerò di opere meno note di artisti celeberrimi (ed inizio proprio così oggi, con gli acquerelli con i quali Manet ha decorato alcune delle sue lettere nel 1880), di dettagli che possono sfuggire quando si visita una collezione d’arte, un grande museo, un palazzo affrescato dove gli oggetti che chiedono la nostra attenzione sono così tanti che qualcosa necessariamente si trascura. Di particolari che a mio parere sono imperdibili e che meritano di essere sottolineati. Brevemente, come ATTIMI richiede.

 

Tra l’estate e l’autunno del 1880 Eduard Manet (Parigi, 1832 – 1883) era a Bellevue, piccola cittadina termale dove tentava di curare una salute ormai molto minata dalla malattia. Si annoiava, terribilmente, senza il movimento e la compagnia della grande città, senza le attrazioni dei caffè, delle amicizie e della mondanità di Parigi e dei luoghi di villeggiatura più stimolanti – come le località balneari della costa normanna. Trascorreva i suoi pomeriggi in giardino e scriveva lettere, una dopo l’altra, alle amicizie lontane, raccontando piccole cose e chiedendo novità, domande curiose e richieste di compagnia a distanza. Il testo delle lettere si dispone attorno a piccoli disegni ad acquerello, deliziosi, freschissimi e colorati: profili di eleganti parigine, tralci di fiori, minuscoli paesaggi, immagini di pesche, susine mature, il gatto Zizi e queste incantevoli lanterne di carta, dai colori delicatissimi.
Gli acquerelli che punteggiano le lettere sono privi di disegno, tutti, dalle immagini più semplici alle più articolate e complesse. Tutti tracciati con pennellate di colore liquido, come queste reficolone, lanterne di carta crespa definite da tratti di lilla, indaco, azzurro e tocchi di beige e luminoso giallo. E’ impossibile non trovarle bellissime. Parlano di una serata estiva in uno dei giardini di Parigi, dove le immagino intrecciate tra gli alberi ad illuminare i tavolini di un caffè all’aperto. E accompagnano deliziosamente il testo della lettera – che riporto sotto – che accenna ad un’occasione di festa.
Eduard Manet, Bellevue, à Isabelle Lemonnier, 1880, Parigi - Fonds des dessins et miniatures, collection du musée d'Orsay

Gli acquerelli sono una dimostrazione di abilità, di capacità di improvvisazione con i quali Manet omaggia i suoi corrispondenti (soprattutto donne); schizzi e scarabocchi giocosi che cercano di catturare l’attenzione di chi legge, più e oltre le poche parole che li accompagnano. Sembrano inframezzati al testo quasi per caso, un piccolo vezzo, un omaggio divertito e improvvisato a chi legge.
Ma non è tutto come sembra. Uno studio molto interessante di Emily A. Beeny pubblicato sul Burlington Magazine nel 2019 (NOTA1), ci dice qualcosa di diverso: che questi acquerelli sono frutto di una straordinaria abilità disegnativa, certo, ma forse l’improvvisazione spesso non c’è. La freschezza e l’immediatezza di questi disegni è il risultato di un piccolo trucco ben studiato: la carta molto sottile e trasparente che Manet usava per la sua corrispondenza si prestava molto bene ad operazioni di ricalco. Dal confronto tra gli album di disegni e di schizzi con alcuni dei soggetti degli acquerelli si nota che in alcuni casi disegno ed acquerello sono perfettamente sovrapponibili. Manet traccia sulla carta ricalcandolo il profilo del disegno e lo riempie di colore steso con rapide pennellate, così da lasciare in chi guarda l’impressione di un pensiero fissato velocemente con tocchi di colore improvvisati e disinvolti.
Capire il ruolo del ‘ricalco’ nelle lettere illustrate ci permette di raccontare una storia più umana su questo periodo della vita del pittore e di apprezzare ancora di più la commovente eleganza dei suoi ultimi disegni. I suoi contemporanei confermano che Manet considerava l’esecuzione agile e spontanea come una componente fondamentale della sua identità di artista e così, anche se la sua salute malferma […] rendeva per lui sempre più difficile essere pittore, spargere qua e là nelle sue lettere agli amici disegni ad acquerello gli consentiva di mantenere viva l’immagine di un artista con una straordinaria capacità di improvvisazione [..]” (Nota1)

 

 Tra le lettere illustrate da Manet, oggi in gran parte in deposito presso il Museo del Louvre (si possono consultare qui) ho scelto questa con il disegno delle lanterne di carta, indirizzata a Isabelle Lemonnier. 

Il testo che accompagna questo piccolo capolavoro è questo (la traduzione è mia):
Bellevue. Aspetto, cara Signorina, un vostro racconto della festa. Vi hanno vista a passeggio la sera, con chi? Nei giornali si è detto dei vostri fuochi d’artificio e dell’illuminazione del vostro giardino. Aggiornatemi un po’ su questo segreto e su cosa avete fatto. Non capisco affatto il vostro silenzio. Cordialità EM”. 


NOTA1. La citazione è tratta da Emily A. Beeny: ‘Evidence of tracing in Manet’s late watercolours’, THE BURLINGTON MAGAZINE 161 (December 2019). La traduzione è mia.

domenica 22 gennaio 2023

Peter Paul Rubens - Adorazione dei pastori - Pinacoteca civica, Fermo

Se qualcuno descrivendo una grande pittura su tavola vi raccontasse che rappresenta l’Adorazione dei pastori, che la Madonna ha il volto di una dea di marmo, uno dei pastori una sontuosa tunica rosso ciliegia e il volto e la posa di una statua classica, che su Gesù bambino si dirige in picchiata una schiera di angeli ‘alla Tintoretto’, che uno di questi hai i riccioli di Correggio e che tutto il dipinto è attraversato da contrasti luce ombra profondissimi come quelli di Caravaggio…beh pensereste forse ad un erudito ‘pastiche’ privo di anima e di bellezza.



                                     Peter Paul Rubens, Adorazione dei pastori, 1608, Fermo - Pinacoteca Civica

E invece. Invece se l’autore è un giovane Peter Paul Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640), si rimane stregati dalla magia di questo dipinto. E’ a Fermo, nella pinacoteca locale, in una specie di mezzanino che dà accesso alle collezioni del piano superiore – almeno era così quando l’ho visto io qualche anno fa. Appeso da solo su una parete bianca avvolge totalmente chi guarda, incantato prima di tutto dal bagliore dorato che si sprigiona dal piccolo Gesù, qui veramente Luce del mondo. E’ lui che attira irrimediabilmente il nostro sguardo, un bimbo paffuto, addormentato, appena accennato con pennellate rapide e pochi dettagli, al contrario delle figure che lo circondano dotate di fisionomie molto più definite. Eppure è quella luce dorata che è il centro del quadro e dalla quale è difficile allontanarsi.

Rubens dipinse l’Adorazione dei Pastori a Roma nel 1608 quando volgeva ormai al termine il suo soggiorno italiano, durato otto anni – era arrivato nel 1600 - durante i quali aveva viaggiato, visto e imparato moltissimo: aveva visto statue di marmo recuperate in quei tempi dagli scavi che si andavano intensificando a Roma, la pittura di Tintoretto, Tiziano e Caravaggio (che muore nel 1610 e le cui invenzioni ardite erano una strabiliante novità nel panorama artistico romano). Era stato a Venezia, Firenze, Mantova e a Genova e aveva certo visto la ‘Notte’ di Correggio, che tutti riconoscono come illustre precedente di questa Adorazione. Il dipinto di Correggio ha un’impostazione simile, lucenti bagliori luminosi, ma tutt’altra dolcezza e uniformità di toni. Non ci sono contrasti in Correggio, ma solo una soffice armonia di tinte e di tonalità, l’atmosfera è leggiadra e serena totalmente priva dei toni concitati e contrastati di Rubens. 

                             Antonio Allegri il Correggio, Adorazione dei pastori (La notte),  1525-1530 ca, Dresda, Gemaldegalerie 

Tutto ciò che Rubens aveva studiato e fissato nella mente è rielaborato in maniera così personale da risultare totalmente nuovo: si avverte un’eco di classicità, un amore profondo per la cultura del Rinascimento italiano, ma nessuna imitazione né citazione esplicita. Rubens è Rubens. Del resto Bellori – citato da Anna Lo Bianco – nella biografia di Rubens scrive che “Benchè egli stimasse sommamente Raffaele e l’antico, li alterava tanto con la sua maniera che non lasciava in esse forma o vestigio per riconoscerle”.

Al centro del dipinto, il piccolo Gesù giace come vuole la tradizione sulla mangiatoia, su un povero lettino di paglia che i bagliori di luce sontuosamente dipinti fanno apparire giallo oro. Dorme beato, ha le guance piene e rosate, le manine chiuse a pugno appena definite e le gambine cicciotte. E’ avvolto in un pannicello che ha la morbida fragranza del lino e la trasparenza di un velo. Maria lo solleva con un gesto aggraziatissimo delle mani che si incrociano con gentilezza. Indossa un manto che è una magia di colori che si fondono uno nell’altro, porpora, rosso vivo, tracce di azzurro e blu profondo. Il suo viso più degli altri è investito dalla luce del piccolo Gesù e ci appare chiarissimo, le gote lievemente rosate, un profilo pieno e nitido, nel quale si è pensato di riconoscere (Anna Lo Bianco) una Niobe ritrovata a Roma nel 1583. 

 Peter Paul Rubens, Adorazione dei pastori, -particolare Bibmo Gesù 1608, Fermo - Pinacoteca Civica


Anche il pastore in primo piano sembra provenire dall’antica Roma: la sua veste sontuosamente rossa è quasi una toga, ha una struttura fisica potente e un bellissimo viso incorniciato dalla barba - come un imperatore romano. Dietro di lui un’anziana donna con un volto quasi caravaggesco segnato da rughe profonde e il capo coperto da una cuffia bianca che invece ci riporta nell’area fiamminga da cui Rubens proveniva. Ognuna delle figure intorno a Gesù ha un diverso atteggiamento, reagisce in modo differente alla visione nel bambino e contribuisce a dare dinamismo e varietà alla composizione (ci sarebbe da chiedersi se Rubens nel dipingere i suoi pastori così diversamente reattivi non abbia meditato a lungo sull’Ultima Cena di Leonardo nella quale appunto ciascuno dei dodici apostoli reagisce e sobbalza in modo personalissimo all’annuncio di Gesù ‘qualcuno di voi mi tradirà’). In alto volteggia un giro di Angeli che sembrano quasi planare sul piccolo Gesù, avvolti da panni che svolazzano e si arricciano in mille pieghe, in un gioco continuo di luce e ombre profonde. Arrivano da una notte molto buia ed è la luce del Bambino che a tratti li illumina e mette in risalto l’oro dei riccioli. All’esterno della capanna il buio è totale, una notte scurissima e nera, un po’ inquietante. Anche il profilo di San Giuseppe si perde nell’oscurità e la sua figura quasi una grisaille si scorge appena alle spalle della Madonna. Eppure ne avvertiamo lo sguardo assorto e concentrato sul volo di angeli su in alto: un altro brano eccelso di pittura, che non passa inosservato nonostante l’assenza di colore. La sua figura e quella del pastore in piedi dal lato opposto che si porta una mano al viso per proteggersi dalla luce non sono intere, sono ‘tagliate’ dalla cornice del quadro, a suggerire che abitano in parte lo spazio dove siamo noi, gli spettatori al di là del quadro. Un espediente che diventerà tipico del barocco: coinvolgere chi guarda fino a sentirsi parte della scena che si prolunga nello spazio che noi abitiamo.

 Peter Paul Rubens, Adorazione dei pastori - dettaglio del pastore - 1608, Fermo - Pinacoteca Civica

Siamo nel 1608, Rubens è all’inizio della sua carriera. Non è ancora il pittore delle favole mitologiche, teatrali vortici di dee piene e carnose, di divinità muscolari dipinte con colori prima sontuosi e pieni, poi sempre più liquidi, dei ritratti regali o dei drammatici dipinti a tema religioso, capisaldi della storia della pittura ma decisamente eccessivi. Qui Rubens è più misurato, in qualche modo più classico, ma la maniera di concepire lo spazio, l’attenzione per i bagliori improvvisi di luce e la qualità altissima del colore che lo fanno ritenere il padre della pittura Barocca ci sono già tutti.

Il dipinto fu commissionato dai padri Oratoriani per la chiesa di San Filippo Neri a Fermo dove fu collocato nel giugno del 1608 e rimase quasi dimenticato fino al 1927, quando Roberto Longhi passando da Fermo lo scoprì con grande emozione. Possiamo immaginarlo.


Anna Lo Bianco (a cura di), Rubens, Adorazione dei pastori, catalogo della mostra, tenutasi a Milano a Palazzo Marino nel 2015, edito da Marsilio