Amo profondamente la pittura ed ogni forma di arte.

Il mio blog è per coloro che sanno scoprire cose nuove anche a pochi km di casa, sono curiosi della vita e credono che la felicità si possa conquistare amando le piccole cose.

domenica 10 novembre 2019

Sandro BOTTICELLI - Le figlie di Jetro - Cappella Sistina - Roma Città del Vaticano


Che "La Recherche" di Marcel Proust sia un intero mondo di immagini e suggestioni è perfino banale scriverlo. Tutti conoscono l’ “effetto madeleine” , ormai entrato nell’immaginario collettivo anche grazie al fatto che parlare di cibo in tutte le sue possibili declinazioni piace e va di moda. Assaggiare quel piccolo dolcetto con una tazza di té trasporta Proust in un mondo di ricordi che erano nascosti in un angolo della sua coscienza. Così come è assai nota, sempre dalla Recherche, la citazione della ‘piccola ala di muro giallo […] simile ad una preziosa opera d’arte cinese’ a proposito della straordinaria Veduta di Delft di Vermeer.
Forse meno conosciuto è il passo in cui Proust ricorda il particolare di un affresco dipinto da Sandro Botticelli (Alessandro Filipepi detto Botticelli, Firenze 1445 ca. – Firenze 1510) nella Cappella Sistina. Odette ricorda a Swann una delle due figlie di Jetro, Sefora futura moglie di Mosé: “Lo ricevette in una veste da camera di crespo cinese color viola, trattenendosi sul petto, come un mantello, una stoffa dai ricchi ricami. In piedi accanto a lui, lasciando fluire lungo le gote i capelli che aveva disciolti, piegando una gamba in un'attitudine leggermente danzante […] con i suoi grandi occhi così stanchi e imbronciati […] ella colpì Swann per la sua rassomiglianza con quella figura di Sefora, la figlia di Jetro, che si vede in un affresco della Cappella Sistina”.

Sandro Botticelli , Le Figlie di Jetro particolare da Le prove di Mosè - 1481 , 1482 Cappella Sistina, Roma Città del Vaticano (affresco) 

Con poche parole Proust ha colto l’essenza dell’arte di Botticelli, a volte gli scrittori e i poeti riescono a farlo meglio di chi studia arte da sempre. Grazia nelle pose e nei lineamenti, abiti di velo leggero, attenzione ai giochi calligrafici riprodotti sulle stoffe, occhi grandi spesso velati di malinconia.
Botticelli è un pittore complesso: inizia a dipingere nel circolo di umanisti neoplatonici che circondano la famiglia Medici – la Primavera non ha ancora trovato un’interpretazione definitiva, tanto sottili ed eruditi sono i richiami alla mitologia e alla filosofia – poi dopo il 1490 il suo stile progressivamente cambia, resta il fascino etereo delle sue figure ma si accentua la tendenza espressionistica, una nuova tensione spirituale percorre i suoi dipinti. La critica spiega questo mutamento con l’influenza che la predicazione di Savonarola ebbe sull’indole meditativa di Botticelli. Non sapremo mai se il pittore divenne un seguace del frate, ma certo avvertì profondamente il suo rigore riformatore.


Sandro Botticelli , Le Figlie di Jetro particolare da Le prove di Mosè - 1481 , 1482 Cappella Sistina, Roma Città del Vaticano (affresco) 

Ho scelto di presentare qui le figlie di Jetro perché questa è una delle mie immagini preferite di tutta la storia della pittura. Le trovo incantevoli. Le due figure sono tratte dall’affresco con le Prove di Mosè dipinto da Botticelli sulle pareti della Cappella Sistina tra il 1481 e il 1482. Migliaia di visitatori ogni anno accedono a questo santuario della pittura, mi chiedo quanti si soffermino su queste due straordinarie figure. Troppo presi da Michelangelo – forse – oppure talmente abbagliati dallo splendore della Cappella che nel desiderio di vedere tutto ci si dimentica di guardare i particolari. E allora penso sia importante metterli in evidenza questi particolari.
Le due sorelle sono di una grazia sublime, Sefora quella che vediamo di fronte ha gli occhi grandi e tristi, il sorriso dolce, i capelli fluenti ornati da bacche vermiglie, un ampio scialle ricamato sopra la veste che sembra fatta di tulle bianco. L’altra la vediamo di spalle, possiamo ammirare la complicata pettinatura con trecce ornate di perle rosse, ha indosso un mantello di pelo di capra e come la sorella si muove con passo leggero. Non la vediamo in viso ma capiamo che è la più volitiva, sembra essersi voltata di colpo ad indicare qualcosa a Sefora e la sorella si ferma pensosa con i suoi grandi occhi grigi che fissano un punto che a noi sfugge. Non è vuota bellezza quella di Botticelli è un’arte sottile di cui a prima vista si coglie solo la bellezza formale ma che merita di essere studiata in profondità perché anche in questo affresco che è ‘solo’ l’illustrazione di un racconto biblico circola un sentimento che va oltre l’apparenza visibile.
Sandro Botticelli , Le prove di Mosè - 1481 , 1482 Cappella Sistina, Roma Città del Vaticano (affresco) 

Se Raffaello è celebrato per il binomio ‘bellezza e armonia’, Botticelli deve essere ricordato per ‘bellezza e grazia’ incomparabili. Le sue figure hanno un fascino distante, sono elegantissime e preziose anche quando vestono pelli di capra. Hanno tutte un’aria pensosa quando non decisamente malinconica. 
La pittura fiorentina del Quattrocento vede il primato del disegno sul colore, è la linea che definisce e struttura le figure e Botticelli è un disegnatore sublime, il colore riempie come smalto spazi già definiti dalla linea di contorno che è agile, aggraziata, altre volte più tesa e nervosa. Azzurro e oro – chissà come luccicava quest’oro alla luce delle candele che illuminavano la Cappella - grigio e bianco e qualche sprazzo di rosso vermiglio sono i colori che Botticelli ha scelto per le figlie di Jetro che sono inserite di fronte ad un piccolo boschetto, ma a Botticelli non interessava il paesaggio, né gli sfondi architettonici in prospettiva, il centro del suo mondo pittorico è la figura umana.


domenica 13 ottobre 2019

Lorenzo LOTTO - Madonna con Bambino tra i Santi Bernardino Giuseppe Giovanni Battista Antonio Abate - Chiesa di San Bernardino in Pignolo Bergamo


Sono decine gli aggettivi con i quali la critica del Novecento ha cercato di dipingere la personalità di Lorenzo Lotto (Venezia 1480 ca - Loreto 1556): uomo schivo, solitario, malinconico, inquieto, visionario, inafferrabile e mai compreso fino in fondo dai suoi contemporanei. Lo dimenticheranno presto infatti e per più di 300 anni Lotto sarà davvero poco conosciuto, fino a quando la monografia di Bernard Berenson nel 1895 lo riporta all’attenzione degli studiosi e degli appassionati di arte.
Il suo essere ‘homo poco avventurato’  - è lui stesso che si definisce così – lo fa facilmente soccombere sotto la personalità titanica del suo ingombrante contemporaneo, Tiziano Vecellio. Tanto che a Venezia di Lotto – che a Venezia era nato intorno al 1480 – si conservano pochissime opere. Poco si sa della sua formazione, si ipotizza un contatto con la bottega di Giovanni Bellini, forse, o con Alvise Vivarini, di certo è tutta veneziana la sua straordinaria abilità nell’uso del colore. Sceglie però di lavorare in provincia, dove i ‘suoi gesti senza retorica, morbidi, confidenziali e domestici’ – le parole sono di Anna Banti - incontrano più facilmente i gusti della committenza. E si fa portavoce di un altro Rinascimento, più intimo e raccolto, lontano dal tono aulico e maestoso di Tiziano e dal classicismo di Raffaello.
Fu appunto un uomo inquieto, impossibile seguire tutti i suoi cambi di abitazione, di città, quel suo andare e venire, Treviso, Bergamo, le Marche, un anno a Roma – che non era per lui, esattamente come non lo era Venezia – poi ancora Venezia e di nuovo altre partenze ed altre case. Non ebbe mai una famiglia sua e finì i suoi giorni, amareggiato e povero a Loreto, dove si era fatto oblato nella Santa Casa.
Lorenzo Lotto , Madonna con Bambino e santi - 1521 Chiesa di San Bernardino in Pignolo, Bergamo (olio su tela) 

Di Lorenzo Lotto, che è stato uno dei più grandi ritrattisti del Cinquecento ho scelto non un ritratto, ma quest’opera che si trova nella chiesa di San Bernardino in Pignolo a Bergamo, una classica Sacra Conversazione, con la Madonna e il Bambino al centro accompagnati da Santi, perché trovo che sia indimenticabile la figura dell’Angelo scrivano. E’ come ci immaginiamo gli Angeli, con la faccia di bambino, i riccioli biondi, un filo sottile d’oro a formare una stellina sulla testa, un corpo che fa ombra e quindi ‘è’ e al tempo stesso ‘non è’, perché l’abito arancio – ora cupo, un tempo squillante – che lo ricopre sembra vestire il nulla. Magica qui la pittura di Lotto che gonfia le pieghe intorno alla cintura e al tempo stesso sembra negare la sostanza di un corpo vero al di sotto di tutta quella stoffa. Una figura leggerissima quasi inconsistente avvolta in un abito vaporoso. Perché questo è un Angelo appunto, c’è e non c’è. Un Angelo che ci guarda anche un po’ spazientito ed è anche così che ci immaginiamo gli Angeli, non certo dotati di pazienza infinita – che è solo dei Santi – ma vagamente dispettosi e pasticcioni. Come quelli che si arrabattano nel cielo per tenere teso quel drappo verde che proprio non ci vuole stare in equilibrio e cade da tutte le parti, la percepiamo benissimo la seta, pesante come il raso, che scivola silenziosa sul gradino di marmo perfettamente liscio.
Lorenzo Lotto , Madonna con Bambino e santi - 1521 Chiesa di San Bernardino in Pignolo, Bergamo (olio su tela) Particolare dell'Angelo Scrivano

E’ una Sacra Conversazione, si, che però ha il ritmo di un racconto e niente di retorico, anzi è ricca di invenzioni sorprendenti. La Madonna è seduta su un trono a gradini, uno dei quali è la scrivania improvvisata dell’Angelo. Ha un viso giovane, uno scialle annodato intorno al collo con un lungo strascico, tenta di richiamare l’attenzione di Gesù Bambino che sembra un po’ distratto e con un piccolo gesto della mano indica il registro delle preghiere squadernato di fronte all’Angelo. Gli angioletti lottano con quel baldacchino che non riesce a stare fermo, l’Angelo ci guarda e sembra interpellare proprio noi, San Giovanni parla con Sant’Antonio Abate che strizza gli occhi per vedere meglio e San Giuseppe appare stanco e pensieroso, con i piedi che si appoggiano l’uno sull’altro. Solo San Bernardino guarda estasiato la Madonna e il piccolo Gesù.
E’ una storia che si svolge sotto i nostri occhi, un piccolo eterno racconto, destinato ad un pubblico ampio e semplice (quello che quotidianamente frequentava la piccola Chiesa di San Bernardino) al quale Lotto sapeva parlare utilizzando un linguaggio facile e una sottile ironia. Il suo messaggio è semplice, ma le sue invenzioni iconografiche hanno un fascino senza tempo e la qualità di quest’opera è altissima. I colori innanzi tutto, vivaci, freddi, quasi trasparenti ed accostati con audaci contrasti: il rosso arancio della veste di Maria, il suo scialle, forse più strati di un velo leggero, che passa dal beige all’azzurro chiarissimo, il rosa del manto del Battista un po’ Tiziano un po’ quello che sarà il rosa di Velazquez, il verde cangiante della seta. E quel bordo di un meraviglioso color prugna che si intravede sotto la tonaca di Sant’Antonio, chi se non Lotto poteva accostarlo con tanta eleganza al nero?

Lorenzo Lotto , Madonna con Bambino e santi - 1521 Chiesa di San Bernardino in Pignolo, Bergamo (olio su tela) Particolare del gradino del trono
E poi ci sono i particolari, ciascuno perfetto, ciascuno una piccola storia: i boccioli di rosa e i petali rimasti sui gradini del trono, la manica scucita e sfilacciata della camicia di San Giuseppe dalla quale si intravede la fodera e la veste bianca al di sotto, la luce del tramonto vagamente rosata dietro la sua testa. E da ultimo lo sguardo interrogativo dell’Angelo che sembra aspettare da noi una parola, una supplica per completare la frase che sta scrivendo. 
Lorenzo Lotto , Madonna con Bambino e santi - 1521 Chiesa di San Bernardino in Pignolo, Bergamo (olio su tela)- Particolare San Giuseppe

Ci siamo anche noi in questa storia, perchè con lo sguardo interrogativo e diretto dell’Angelo Scrivano Lorenzo Lotto ci trasforma da spettatori a personaggi di questo racconto, dando vita ad un modernissimo gioco di inversione, in anticipo su quella che sarà una delle caratteristiche dell'arte del Seicento Barocco.

martedì 20 agosto 2019

Diego VELAZQUEZ - Le Filatrici o La Favola di Aracne (Las Hilanderas) - Museo del Prado Madrid


Nell’inventario dei suoi beni redatto dopo la morte di Diego de Silva Velazquez (Siviglia 1599 – Madrid 1660) sono registrate due copie delle Metamorfosi di Ovidio, una versione in italiano ed una in castigliano. E nelle Metamorfosi è narrata la favola di Aracne. La ragazza abilissima tessitrice, orgogliosa delle proprie capacità si riteneva più abile di Pallade Atena, patrona delle tessitrici. Atena si traveste da anziana, scende sulla terra e cerca di convincere Aracne ad essere più modesta, a non sfidare gli dei con i quali lei, mortale, non può osare competere. Ma Aracne è testarda, assolutamente convinta della propria superiorità e ad Atena non resta che sfidarla in una gara di abilità. Tessono arazzi magnifici entrambe, ugualmente belli, sontuosi e perfetti, un pareggio dunque, ma la fine della storia è scontata: in nessun caso i mortali possono superare gli dei e Atena indispettita – anche perché la sfrontata Aracne nei suoi arazzi aveva scelto di rappresentare gli amori illeciti ed eccessivamente libertini di Giove, padre di Atena e di tutti gli dei – la punisce trasformandola in ragno, condannata a tessere per l’eternità.
Ebbene questa magnifica opera di Velazquez è la rappresentazione del mito di Aracne.


Diego de Silva Velazquez , Las Hilanderas - 1656 Museo del Prado Madrid (olio su tela) 


In realtà il significato di questo dipinto si era perduto presto, il quadro era noto fino agli inizi del Novecento semplicemente come Le filatrici (Las Hilanderas): un attimo di vita – magnificamente riprodotto – nella Manifattura Reale di Santa Isabel dove si producevano gli arazzi per le residenze del Re. Una sorta di sontuoso ritorno alle scene di genere che Velazquez dipingeva agli esordi - l’opera è datata 1656.
Solo agli inizi del Novecento i critici iniziarono a studiare con attenzione cosa si vede in questo dipinto … non era affatto una semplice rappresentazione di filatrici al lavoro (in primo piano) e dame eleganti della corte madrilena che ammirano le tappezzerie (in secondo piano). I dettagli vennero poco a poco riconosciuti e si intuì il racconto mitologico – il successivo ritrovamento dell’inventario delle proprietà di Pedro de Arce, cui apparteneva il quadro, ha confermato che all’epoca di Velazquez il dipinto era noto come ‘La favola di Aracne’.
La dona anziana in primo piano con la testa velata sarebbe Atena travestita (dalla veste sporge la gamba tornita e giovane della dea), la ragazza di schiena con i capelli avvolti in uno chignon e la camicia bianca inondata di luce, sarebbe Aracne.. e poi ancora in secondo piano la figura con l’elmo e la lancia un’altra Atena che decreta la punizione di Aracne, elegantissima al centro della scena, dietro di loro un arazzo con l’immagine del Ratto di Europa, uno degli amori di Giove tessuti da Aracne.


Diego de Silva Velazquez , Las Hilanderas - 1656 Museo del Prado Madrid (particolare)

Ma non è così semplice. Questo dipinto non ha fino ad ora suscitato l’interesse di tanti filosofi, letterati, teorici della fotografia e intellettuali come il leggendario Las Meninas, che ha prodotto decine di interpretazioni e riletture, ma è quasi altrettanto complesso. Quanti sono i piani della rappresentazione? Se ne possono individuare quattro: le donne al lavoro in primo piano, poi su una specie di palcoscenico cui si accede salendo due scalini tre donne in abiti eleganti, certo non delle filatrici, davanti a loro un terzo ‘strato’ Atena e Aracne che disputano davanti agli arazzi che hanno tessuto, i quali chiudono (quarto livello di rappresentazione) la scena.
Cosa vediamo davvero? Cosa ci sta dicendo Velazquez? Perché Atena e Aracne sono in primo piano e poi anche sullo sfondo? Perché lo sfondo è più luminoso e brillante del primo piano? Quella che vediamo sullo sfondo è una rappresentazione teatrale (c’è anche una viola appoggiata alla parete) alla quale stanno assistendo le tre dame in abiti contemporanei (una delle quali si rivolge a noi, quasi ad indicarci che è lì che dobbiamo concentrarci)? E poi la Atena e la Pallade sullo sfondo ci sono ‘davvero’ o sono anche loro arazzo, tappezzeria? E chi sono, se non possono essere considerate spettatrici le tre dame sullo sfondo? Le tre donne della Lidia che secondo Ovidio furono le testimoni della gara? Il soggetto del quadro è ‘solo’ la favola di Aracne, relegata da Velazquez sul fondo del quadro (come faceva nei dipinti giovanili, in cui metteva in primo piano scene di vita quotidiana e sul fondo episodi dei Vangeli) e quindi il primo piano rappresenta davvero solo filatrici?
E ci sono altre complessità: l’arazzo con il ratto di Europa sullo sfondo riproduce la copia che Rubens aveva tratto dal Ratto di Europa di Tiziano, dunque per chi sappia cogliere questa sottile indicazione (da veri esperti!) istituisce – è stato detto- una linea di discendenza precisa: Tiziano Rubens Velazquez. E’ la storia del progresso dell’arte, della sua continua evoluzione verso qualcosa di sempre più perfetto. Questa è una delle letture che è stata data al dipinto.
Ce ne sono molte altre: la Favola di Aracne è stata vista come il manifesto della nobiltà dell’arte, grazie al lavoro e all’ingegno le semplici informi matasse di lana sparse sul pavimento in primo piano diventano lo splendido arazzo dello sfondo, scintillante di colori e di luce. Grazie all’arte gli uomini possono essere come gli dei. E questo era un tema carissimo a Velzquez che per tutta la vita ha lottato per ottenere il riconoscimento di un ruolo non subalterno che riteneva di meritare, pur se privo di titoli ‘veri’ di nobiltà e lignaggio, rivendicando la dignità elevatissima della pittura, non semplice mestiere artigianale, ma raffinata attività intellettuale come dimostrano le ultime opere dipinte dal sivigliano, sofisticate e complesse che intrigano lo spettatore non solo perché ‘pittura pura’, ne sfidano le capacità di interpretazione.
E’ stato detto che Velazquez in questo dipinto ci racconta l’intreccio indissolubile tra realtà e finzione: la vita in primo piano (le filatrici), la finzione teatrale sul palcoscenico e l’arte rappresentata dagli arazzi. Vita arte finzione, chi riesce a capire cosa è reale e cosa non lo è? Cosa è arte, finzione, illusione e quale è la realtà? Dove finisce la favola mitologica e dove inizia la vita vera delle filatrici?
C’è una tale ricchezza di suggestioni e di temi da rendere questo dipinto quasi inafferrabile o meglio da indurci a guardarlo sempre con occhi nuovi, alla ricerca di una nuova lettura.
Forse la più bella interpretazione è stata data da Karl Justi che nel 1888 ha scritto un testo capitale su Velazquez e non sapeva ancora che il tema di questo dipinto fosse la favola di Aracne, riteneva che il vero soggetto fosse la resa della luce, l’assoluta capacità di Velazquez di rappresentare la luce e scriveva con un tono poetico che fa amare questo quadro ancora di più: “un raggio allegro, uno stralcio di giorno estivo madrileno si è perduto nello stretto vano in cui è esposto l’arazzo… il raggio accende i fili multicolori di lana di seta e d’oro del tessuto e delle vesti delle dame”.


Diego de Silva Velazquez , Las Hilanderas - 1656 Museo del Prado Madrid (particolare)

E infatti uscendo dal labirinto comunque affascinante di cosa il quadro rappresenta è indispensabile soffermarsi sul come lo rappresenta, sul fascino di questa pittura senza tempo. A tratti liquida, compendiaria, filamenti di colore che definiscono le forme – a mio parere l’abito azzurro di una delle spettatrici sullo sfondo è indimenticabile e, non so perché, mi ricorda la matassa di fili colorati che trabocca dal cestino della Merlettaia di Vermeer.
Velazquez ci fa percepire quanto sono soffici i fiocchi di lana che invadono il pavimento, il pulviscolo che si solleva e riempie l’aria. Il filo che da gomitolo informe si assottiglia sotto le mani esperte della filatrice con la camicia bianca, splendida macchia di luce in primo piano, stoffa che si piega e si arriccia e lascia scoperta una piccola parte di schiena e la nuca di questa ragazza che immaginiamo bellissima, perché la sua pelle ha lo stesso colore di quella della celebre Venere allo specchio della National Gallery di Londra, forse il nudo più affascinante di tutta la storia dell’arte.
Lo hanno sottolineato tutti e lo scrivo anche io: la magia della ruota dell’arcolaio in primo piano, Velazquez è riuscito a dipingere il movimento. 


Diego de Silva Velazquez , Las Hilanderas - 1656 Museo del Prado Madrid (particolare)

Davvero il pittore dei pittori come scrisse Manet. E’ forse questo il tema vero del quadro: la Pittura, pura e assoluta. Luca Giordano aveva definito Las Meninas la teologia della pittura, Las Hilanderas non è lontano dall’essere anche lui ‘teologia’. 


martedì 13 agosto 2019

Preraffaelliti - Amore e Desiderio


Erano sette, giovanissimi, era il 1848, l’anno dei moti rivoluzionari in tutta Europa, fondarono la Confraternita dei Preraffaelliti, che all’inizio aveva le caratteristiche di una società segreta (romantico!) e l’intento subito dichiarato, sin dal nome, di liberare l’arte dal rigido accademismo in cui – secondo loro -  la pittura era caduta dopo Raffaello. Proponevano anche loro una rivoluzione, tentare di cambiare la vita, cominciando a cambiare l’arte. Siamo a Londra in epoca vittoriana quando una rigida morale (spesso puramente di facciata) tentava di imbrigliare ogni aspetto della vita, esattamente come le regole dell’accademia dettavano i criteri della ‘vera arte’. E i Preraffaelliti si ribellavano, intendevano rigenerare l’arte per arrivare a rifondare le regole con le quali condurre la vita, la loro arte doveva inaugurare un modo nuovo di guardare alla vita.
L’arte libera e spontanea era finita con Raffaello e l’algida bellezza delle sue Madonne. Per ritrovare la verità della pittura si doveva tornare ai primitivi (i pittori del Trecento italiano) e al primo Quattrocento, senza dimenticare un contatto diretto con la natura, che porta i Preraffaelliti a dipingere en plein air, anche se con esiti molto diversi dall’impressionismo (di poco posteriore). 

Dante Gabriel Rossetti - Il sogno di Dante alla morte di Beatrice (1856)



Il loro approccio alla natura non è puramente ottico come sarà quello degli impressionisti affascinati dalla luce. I Preraffaelliti erano attratti dalle forme di ogni singolo fiore, dai dettagli più minuziosi riprodotti con un’attenzione che riproponeva in chiave moderna quella che era stata la passione tutta gotica per i particolari. Sia detto per inciso: per quanto i Preraffaelliti ai loro inizi trovassero ispirazione nell’arte medioevale, proprio nessuna delle loro opere può essere scambiata per un’opera davvero medioevale – nemmeno quando imitano in maniera accuratissima le miniature trecentesche come nel Roman de la Rose di D.G. Rossetti: l’atmosfera che si respira in ogni dipinto è modernissima.
La mostra presenta una raffinata selezione di opere che raccontano l’avventura di questi giovani e della loro arte. I tre principali esponenti della Confraternita erano Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), John Everett Millais (1829-1896) e William Holman Hunt (1827-1910): la confraternita si sciolse dopo soli cinque anni nel 1853, tutti però continuarono a dipingere e giunsero ad esiti piuttosto diversi dalle premesse dalle quali erano partiti. All’inizio il pubblico e i critici si mostrarono assai contrari al loro modo di dipingere - si scandalizzavano della libera sensualità delle donne che essi rappresentavano, avvolte in chiome lunghissime e sciolte, dell’ambientazione troppo dimessa e quasi laica delle opere religiose – ebbero però il sostegno incondizionato di John Ruskin e divennero negli anni ottanta dell’Ottocento delle celebrità. L’esposizione è suddivisa per temi e in tal modo dà conto della molteplicità di interessi di questi artisti, che erano appassionati di poesia (leggevano Chaucer, Dante, Shakespeare, ma anche i poeti romantici e autori moderni come Robert Browning ed erano in alcuni casi poeti e scrittori loro stessi), di leggende medioevali, prendevano ispirazione dalle storie della Bibbia e da temi della loro contemporaneità.

E’ indubbio il fascino di questa pittura tecnicamente molto raffinata, dai colori brillanti e smaltati, quasi da vetrata medioevale. Molti di loro avevano frequentato scuole d’arte ed erano abilissimi disegnatori. Forse ai nostri occhi alcune immagini possono sembrare un po’ ingenue e stereotipate, ma in ogni dipinto esposto vale la pena di osservare l’armonia dei colori, il fascino di alcuni particolari: i paesaggi immaginari di cittadine turrite che si intravedono da alcune finestre, i fiori che si fanno strada tra le pietre di un muro, la morbidezza con cui ricadono i capelli delle dame, la straordinaria leggerezza della sciarpa violetta di Amore d’Aprile di Arthur Hughes, alcune minuziose nature morte di tavole apparecchiate (come ne La proposta di Frederic Georges Stephens), il racconto di come questi artisti immaginavano il medioevo e l’arte che produsse e che ‘i confratelli’ conoscevano soprattutto grazie alle incisioni che Carlo Lasinio aveva tratto da dipinti attribuiti a Giotto, a Benozzo Gozzoli e ad altri grandi maestri italiani per il volume Pitture a fresco del camposanto di Pisa (1832), di cui Millais possedeva una copia (in mostra è esposta una versione del volume).


E poi ci sono le icone che fanno ormai parte dell' immaginario collettivo: i Preraffaelliti sono Ophelia di Millais e gli straordinari ritratti di donne di Rossetti, forse il più dotato tra questi artisti. 
John Everett Millais - Ophelia (1851-1852)

Nell’Ophelia (eroina shakespeariana) di Millais sembra di veder scorrere l’acqua che trascina via lentamente questa donna bellissima; la modella era Elisabeth Siddal, futura moglie di Rossetti ed è ormai nella mitologia il racconto di come Elisabeth posò per Millais in abito da sposa, immersa in una vasca piena d’acqua fredda riscaldata solo da candele, ammalandosi gravemente. Tutto in questo dipinto è un capolavoro, la sensazione dell’acqua gelida, il verde smaltato dell’erba, i colori brillanti dei fiori carnosi e vivi – ognuno ha un particolare significato allegorico - che contrastano con il pallore mortale di Ophelia, avvolta in un abito che è quasi una nuvola e la fa apparire senza peso, in balia della corrente.
Dante Gabriel Rossetti - Monna Vanna (1866)

E poi le bellezze opulente e quasi decadenti di Rossetti, una galleria di ritratti femminili di grandissimo fascino, dipinti a partire dagli anni Sessanta. Monna Vanna immagine icona della mostra, Monna Pomona, Aurelia …. Opere in cui l’insieme affascina quanto i singoli dettagli. La collana di corallo di Monna Vanna sembra crepitare e scrocchiare così attorcigliata intorno alle sue mani affusolate, il cesto di rose dietro di lei, il blu sontuoso dell’abito di Monna Pomona e il mazzolino di rose appoggiato sulle pieghe cobalto della sottana, il suo corsetto di trina, i riccioli ramati di Aurelia e il delizioso orecchino che le pende da un lobo. Quanta strada ha fatto la pittura di Rossetti rispetto agli inizi. Qui le pennellate sono libere, corpose, si sono sostituite al disegno per dare struttura ai corpi, il colore non è più lo smalto della vetrata medioevale, ma quello ricco e sfumato, quasi atmosferico della pittura del Cinquecento veneto. Perché è indubbia l’ispirazione tizianesca di questi busti di donne. Rossetti è partito negando Raffaello e quanto ne seguiva e si ritrova a dipingere versioni modernissime delle dame del Cinquecento veneziano.

Dante Gabriel Rossetti - Monna Pomona (1864)

Da ultimo un ‘da non perdere’: la Veduta di Firenze da Bellosguardo di John Brett. La precisione lenticolare dell’immagine non toglie niente alla atmosfera incantata della Firenze di metà Ottocento, attraversata da un Arno davvero d’argento e avvolta da una luce settembrina che fa capire perché gli inglesi dell’epoca fossero così innamorati di questa straordinaria città.
John Brett - Veduta di Firenze da Bellosguardo (1863)

  
E infine: non so se sia una coincidenza o il frutto di un piano preciso e molto intelligente ma quest’anno Milano ha offerto agli appassionati tre mostre complementari, diverse ma strettamente connesse l’una all'altra, la possibilità di esplorare quanto sia stato ricco e complesso l’Ottocento della pittura europea: la mostra Romanticismo alle Gallerie d’Italia, Ingres e il suo tempo a Palazzo Reale e sempre a Palazzo Reale i Preraffaelliti.


La mostra è a Palazzo Reale Milano fino al 6 Ottobre 2019.


lunedì 8 luglio 2019

GUERCINO - Madonna del Passero - Pinacoteca Nazionale di Bologna

Vorrei condividere qui alcune delle mie opere preferite, tentando di raccontarle come le vedo io. Una rubrica che chiamerò Un'opera .. ogni tanto (avevo pensato Un'opera alla settimana, ma è un ritmo impossibile da tenere, temo).
Ecco la prima puntata. Una straordinaria Madonna di Guercino.


Non c’è in tutta la storia dell’arte, almeno ai miei occhi una Madonna con Bambino più commovente di questa, potrei guardare questo bimbo paffuto e tenero per ore senza stancarmi mai. E ammiro moltissimo Sir Denis Mahon, che l’aveva acquistata nel 1946 e lasciata poi in deposito, alla Pinacoteca Nazionale di Bologna dove tutt’ora si trova, privandosi di questa dolcissima immagine. Dipinta dal Guercino (soprannome di Giovanni Francesco Barbieri, Cento 1591Bologna 1666) tra il 1615 e il 1616 è l’opera di un pittore poco più che ventenne, che diventerà uno dei grandi della pittura europea. Tanto che Diego Velazquez nel suo primo viaggio in Italia nel 1629 si fermò proprio a Cento, minuscolo centro a qualche chilometro da Bologna probabilmente per conoscere il Guercino. Che però nel frattempo era andato e tornato da Roma ed era diventato un pittore diverso. I toni bruniti e soffusi di questa Madonna avevano lasciato il posto a colori più sontuosi e limpidi a forme più stabili e delineate; questa Madonna invece ha i contorni sfumati e lievi, il disegno è impercettibile e sono il colore e la luce che definiscono le forme.

Barbieri Giovan Francesco detto il Guercino, Madonna del Passero - 1615 / 1616 - pinacoteca Nazionale Bologna

Niente ci dice che si tratti di una Madonna. Non ci sono aureole, né angeli, né simboli di divinità. Vediamo solo una giovane donna con i capelli trattenuti da un semplice nastro di stoffa che tiene in braccio il suo Bambino facendolo giocare con un passerotto. Una mamma che interrompe le faccende quotidiane e gioca con il suo piccolo splendido Bambino, che è un capolavoro di tenerezza. Paffuto e morbido ha i piedini grassocci, il visino bello tondo e un profilo dolcissimo immerso nell’ombra senza che si perda niente dell’espressione incantata con cui fissa l’uccellino. La mamma lo cinge con un braccio ma lui per sentirsi più sicuro si aggrappa al vestito di Maria senza staccare gli occhi dal passerotto, incantato da questo magico gioco.
E’ una scena immobile e silenziosa, in cui anche la luce si fa strada con cautela, illuminando da dietro il piccolo Gesù e lasciando nell’ombra i profili di mamma e bambino. Non succede niente, immaginiamo un gioco senza vederlo realmente eppure è un’immagine che regala una grande emozione e dimostra come davvero la pittura possa essere poesia. Tante parole ha speso il Seicento sul tema dell’ut pictura poesis ma immagini come questa valgono più di tanti trattati.
Il colore è caldo e vibrante, steso ad ampie campiture spontanee e libere che sfaldano i contorni, lo sfondo bruno e indistinto, il taglio ravvicinato accentua l'intimità della scena e ci rende spettatori partecipi.
Guercino era quasi autodidatta, si era formato in scuole di pittori locali poco conosciuti, studiando con assoluta devozione le opere di Ludovico Carracci (la cui Sacra Famiglia con San Francesco era a Cento). In quest’opera le suggestioni sono tante, c’è il vero di natura che diventa storia sacra – come aveva insegnato Caravaggio - c’è la riscoperta degli affetti senza affettazione, c’è la capacità, magari ancora inconsapevole, di affascinare lo spettatore e coinvolgerne i sensi e i sentimenti come vorrà fare la poetica del Barocco.
Le Madonne del Quattrocento e del Cinquecento, di Botticelli o di Raffaello attirano lo spettatore per la loro bellezza senza tempo, per la perfezione irreale dei lineamenti, per la capacità di riprodurre l’idea astratta della divinità. Sono donne che restano lontane dalla esperienza di tutti i giorni, lo spettatore non si sente ‘nel quadro’, ma lo ammira .. ad una rispettosa distanza. La Madonna di Guercino ci attira nel quadro, ci rende partecipi della tenerezza che circola in questo piccolo gruppo familiare, così totalmente umano. Non c’è nessuna azione, non accade niente, ma chi guarda si sente emotivamente coinvolto, siamo lì anche noi, silenziosi.
Un Guercino totalmente inaspettato per chi abbia in mente le opere romane o degli anni successivi, più meditate, meno fresche ed immediate.
 Nessuna riproduzione fotografica riesce a trasmettere pienamente la bellezza di quest’opera, per cui il consiglio è quella di andare a vederla. Dal vero è indimenticabile.

mercoledì 19 giugno 2019

Jean Auguste Dominique Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone


C’è sempre almeno un motivo per visitare le mostre di Palazzo Reale, di solito allestite in modo impeccabile. E anche questa esposizione non fa eccezione. In una delle ultime sale è esposto il gigantesco Napoleone di Ingres ('Napoleone sul trono imperiale'), definito dai curatori ‘icona glaciale, ieratica, simbolica’. Entrare nella sala, avvolta dalla penombra, con le pareti rivestite di un rosso che si avvicina moltissimo al porpora dell’immenso velluto che avvolge Napoleone, e trovarsi a tu per tu con … l’imperatore è una vera emozione. Qualunque cosa pensiate di Ingres, di questo genere di pittura e di Napoleone stesso, non si può non restare colpiti da questa immensa tela e dal suo fascino magnetico, vi sarà impossibile, passarle semplicemente davanti. E così lo sguardo si sofferma sul velluto rosso e brillante, sui riflessi delle sfere d’avorio del trono, sull’oro delle decorazioni, sul viso bianchissimo quasi eburneo di Napoleone, dipinto come un Giove, forse, o come un’icona bizantina – è stato detto: lo sguardo immobile, fissa lontano e fa sentire a chi guarda tutta la sacralità che l’immagine doveva ispirare. Non ebbe nell’immediato il successo che Ingres si aspettava. Fu aspramente criticato perché non somigliava davvero a Napoleone, era troppo immobile e privo di qualsiasi traccia di vita.
Jean-Auguste-Dominique Ingres - Napoleone sul trono imperiale (1806)

Non sono riuscita ad afferrare il filo logico di questa mostra – per altro molto godibile – che intreccia storie diverse, incentrate sull’arte degli anni tra la fine del Settecento e i primi venti del 1800, di cui offre un’ampia rassegna con dipinti, disegni, miniature, statue. L’esposizione inizia dove anche Jean-Auguste-Dominique Ingres (Montauban 1780, Parigi 1867) aveva iniziato la sua formazione: nell’atelier parigino di Jacques-Louis David, con l’esposizione di alcuni nudi maschili, prova obbligatoria per gli studenti dell’Accademia. Il più emozionante però è quello del maestro, di David, appunto - pittore geniale che alla fine del Settecento aveva imposto un passo nuovo alla pittura - il cosiddetto Patroclo: di spalle, seduto su un drappo sontuosamente rosso, il disegno anatomico – perfetto – è reso meno accademico da un colore morbido e sfumato.
Il racconto della mostra prosegue sottolineando il successo delle donne pittrici, celeberrima Elisabeth Vigée Le Brun e i suoi ritratti della regina Maria Antonietta, ma qui mi piace sottolineare la presenza di Marie-Guillemine Benoist, delizioso il suo autoritratto con i capelli lunghissimi trattenuti da un nastro e una sorta di peplo greco che le scopre una spalla. Dolcissima e determinata al tempo stesso: l’energia con cui stringe i pennelli la dice lunga sulla personalità di questa artista, che aprì per un breve periodo un atelier al quale potevano iscriversi solo allieve donne.
Marie-Guillemine Benoist - Autoritratto (1790)

Poi si entra nel vivo dell’esposizione: Napoleone e la sua famiglia, fratelli, sorelle e cognati che furono sparpagliati da Bonaparte su tutti i troni disponibili. Le campagne d’Italia e i rapporti con Milano, in particolare, dove Napoleone fu incoronato Re d’Italia nel 1805. Arte e politica si intrecciano per raccontare le vicende di Bonaparte con ritratti, immagini di propaganda delle sue campagne militari, la riproduzione (opera di Francesco Rosaspina) del fregio che ornava la sala delle Cariatidi (proprio nel Palazzo Reale) dipinto da Andrea Appiani con le immagini dei fasti di Napoleone, 39 dipinti monocromatici a tempera che imitavano i bassorilievi antichi. Il fregio fu distrutto nel 1943 dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Tre gigantesche teste di marmo di Napoleone, tra queste quella scolpita da Canova, Napoleone come un imperatore romano, immagine purissima del potere.
Una piccola sezione della mostra è per Giovanni Battista Sommariva, uno dei protagonisti della Milano napoleonica, collezionista e mecenate, qui sono esposte tra l’altro alcune deliziose miniature che riproducono opere celebri dell’epoca.
L’ultima parte del percorso espositivo è interamente dedicata ad Ingres. Rimarrà un po’ deluso chi cerca i ritratti delle dame francesi e i loro preziosi abiti alla moda, restituiti da Ingres in tutta la loro frusciante bellezza oppure le celebri odalische con i turbanti intrecciati di stoffe sontuose, immerse in un’atmosfera di fiaba orientale. In mostra c’è solo la versione in chiaroscuro (una sorta di monocromo) de ‘La grande odalisca’, alcuni ritratti maschili, una delle versioni di ‘Raffaello e la Fornarina’ (Ingres aveva una vera venerazione per Raffaello di cui sognava di poter essere l’erede e dalle cui opere aveva derivato il culto per la bellezza femminile), il dipinto con Francesco I che accoglie tra le braccia Leonardo da Vinci morente, in omaggio al cinquecentenario di Leonardo. Pitture di storia queste ultime, del genere “troubadour” , che rappresentavano con poca verità e molta fantasia personaggi ed accadimenti del Medioevo e del Rinascimento.


Jean-Auguste-Dominique Ingres - Grande Odalisca, versione in chiaroscuro (1830 ca.)


E poi ci sono i disegni, nei quali l’abilità di Ingres si dispiega libera, lontana dalle costrizioni del quadro ufficiale, sono freschi, vivaci e da ammirare uno per uno: gli schizzi del Duomo di Milano, della chiesa di San Maurizio, alcuni deliziosi visi di donna.
I ritratti, quasi tutti maschili, hanno occhi penetranti fissi in quelli dello spettatore oppure sguardi malinconici persi altrove, vitalità, linee morbide e sfondi bruni che si accendono grazie al bianco brillante di un colletto, al grigio perla del nastro di una cravatta. E’ come se questo artista avesse due anime o meglio se dipingesse solo con il cuore i ritratti e solo con la ragione, molta tecnica e poco sentimento il resto della sua produzione. Molto diversi dai ritratti sono infatti i quadri di storia o a tema religioso: mostrano panneggi ‘all’antica’ scolpiti in modo tagliente, gesti enfatici e poco naturali, colori smaltati studiati sul contrapporsi delle tinte complementari (in mostra 'La consegna delle chiavi a San Pietro'). Un’eccezione è la figura leggera e aggraziata di Stratonice in ‘Antioco e Stratonice’, avvolta in un abito rosa pallido panneggiato con elegante leggerezza.

Jean-Auguste-Dominique Ingres - Antioco e Stratonice (1840)

Se uno degli obiettivi della mostra era evidenziare il ruolo di Ingres come figura chiave di questa epoca di contraddizioni, c’è riuscita perfettamente. Si evitano i termini ‘neoclassicismo’ e ‘romanticismo’ perché le etichette rigide non sono più ritenute utili a spiegare le caratteristiche del gusto e di un’epoca, ma certo la pittura di Ingres ha una sua dualità che è chiarissima raffrontando due tele giganti in mostra: il Napoleone di cui ho già detto e l’atmosfera onirica de ‘Il sogno di Ossian’, che doveva decorare la camera da letto di Napoleone nel palazzo del Quirinale a Roma. Smaltato e perfettamente nitido Napoleone, immerso in un sogno soffuso Ossian, il colore è solo nel mondo dei vivi dove Ossian giace appoggiato alla sua lira, il mondo dei defunti, popolato di fantasmi è avvolto in una fredda tonalità grigia.
Ingres muore nel 1867 quando Claude Monet ha 27 anni, Eduard Manet ha già l’Olympia – per certi aspetti versione rivoluzionaria delle odalische di Ingres - , sta per nascere l’impressionismo che avrebbe negato ed abolito il disegno che Ingres amava così tanto. Sarà un altro grandissimo disegnatore, Pablo Picasso, a riscoprire la modernità di Ingres.


La mostra è a Palazzo Reale Milano fino al 23 Giugno 2019.