Amo profondamente la pittura ed ogni forma di arte.

Il mio blog è per coloro che sanno scoprire cose nuove anche a pochi km di casa, sono curiosi della vita e credono che la felicità si possa conquistare amando le piccole cose.

lunedì 3 agosto 2020

Diego VELAZQUEZ - Ritratto di Camillo Massimo - Kingston Lacy, Dorset England

Ci sono due elementi spiazzanti in questo ritratto così intensamente blu. Uno: è il ritratto di un ecclesiastico - Camillo Massimo - ed è assai inconsueto vedere un uomo di chiesa abbigliato con un blu così profondo. Sembra che Camillo Massimo potesse sfoggiare questo sontuoso blu in quanto cameriere segreto del papa. Due: l’autore di questo straordinario ritratto è Diego de Silva Velazquez (Siviglia 1599 – Madrid 1660) che, nelle parole di Van Gogh, è il pittore del nero, del bianco, del grigio e del rosa – così lo descrive in una lettera al fratello. Non rammento un’altra opera di Velazquez con un blu così vellutato e diffuso, così ricco, le cui sfumature ci fanno percepire la preziosità della stoffa, la presenza di un minuscolo bottoncino che si intravede tra le pieghe, il taglio delle maniche.

Diego de Silva Velazquez , Ritratto di Camillo Massimo - 1650 Kingston Lacy, The Bankes Collection, National Trust © National Trust Images


Il viso di Camillo si stacca sopra un collettone bianco e si rivolge a noi. Con uno sguardo in cui leggiamo una sorta di bonaria condiscendenza. Un viso grassoccio, baffi e pizzetto perfettamente in ordine, si avvertono sotto la berretta i riccioli curati di questo aristocratico. Che era uomo profondamente colto, amico di artisti, uno degli intellettuali più in vista della Roma del suo tempo. La pittura è sfumata, quasi vaga, Camillo Massimo è una presenza viva costruita di solo colore, la materia pittorica è totalmente disfatta, con un termine anacronistico per la poca la si potrebbe definire impressionistica. Ombreggiature marroni definiscono lo sfondo, intuiamo la spalliera di velluto color mattone della sedia e le lumeggiature dorate delle piccole frange che la ornano. La luce gioca sulla stoffa della mozzetta che scala dal blu profondo a sprazzi di azzurro, il colore è fluido e incantevole. Del viso dell’uomo vediamo tutto: le guance rosate, il volto pingue, il naso pronunciato e le labbra carnose. Senza una traccia di disegno, solo con l’uso magistrale del colore, quel modo di utilizzare tavolozza e pennelli che incanterà Manet. Velazquez è uno dei più grandi ritrattisti di tutti i tempi.

Mi è piaciuta molto l’idea di Tomaso Montanari – nel libro Velazquez e il ritratto barocco - di affiancare questo ritratto di Velazquez al busto di Scipione Borghese scolpito da Gian Lorenzo Bernini – Bernini e Velazquez sono contemporanei, coetanei direi, nati a sei mesi di distanza l’uno dall’altro anche se non abbiamo notizia se si siano mai incontrati / conosciuti. 

Gian Lorenzo Bernini , Busto di Scipione Borghese - 1632 Galleria Borghese Roma (marmo) 


A parte una vaga somiglianza fisica (almeno ai miei occhi) tra i due protagonisti, nei due ritratti si percepisce lo stesso ‘mood’: la simpatia dell’artista nei confronti del suo ‘soggetto’, due uomini di chiesa rappresentati in un modo che non intende certo evidenziare la loro – probabilmente scarsa – spiritualità, ma la loro umanità. Nel senso di essere uomini del loro tempo, sicuramente più vivace e brillante Borghese, vorrei dire più sanguigno, più sottilmente intellettuale ma non meno laico Camillo Massimo. In entrambi i casi quello che sorprende è la capacità di Velazquez e di Bernini di farci sentire il carattere, l’intelligenza e la personalità di questi due uomini. Di Scipione ci sembra di sentire la voce profonda rispondere con arguzia a qualche sollecitazione, di Camillo avvertiamo il silenzio pensoso e un poco condiscendente con cui sembra ascoltarci. Il colore di Velazquez, steso con incredibile maestria esprime la presenza nello spazio di Camillo Massimo; la sostanza è tutta nel colore, Velazquez non ha bisogno di sottili giochi prospettici per farci sentire la tangibilità di questa figura. Nel campo opposto, il busto di marmo così solido e perfettamente bianco di Bernini ha la mobilità e la fuggevole impressione del colore, nelle parole di Montanari sembra ‘restituire proprio il colore e la luce della carne e della stoffa’.

 

Il libro di Tomaso Montanari ‘Velazquez e il ritratto barocco’ è edito da Einaudi.


giovedì 28 maggio 2020

Jean Siméon Chardin - Il barattolo di albicocche - Art Gallery of Ontario Toronto


Un barattolo di albicocche sciroppate pieno solo per metà, con il tappo avvolto da un foglio di carta tenuto stretto da un filo di spago, tre calici di vetro, due focacce croccanti e un frutto. E poi ancora due tazze che si immaginano di fine porcellana con un decoro floreale, simbolo di un certo benessere perché all’epoca tè, caffè e cioccolato non erano bevande per tutti, ma solo per chi poteva permetterselo.
Jean Siméon Chardin, Il barattolo di albicocche - 1758. Art Gallery of Ontario, Toronto (olio su tela ovale) © Art Gallery of Ontario

Ma quale epoca? Sebbene questo dipinto sembri modernissimo – diciamo che dimostra almeno 100 anni di meno – siamo alla metà del 1700, nel 1758 per l’esattezza e l’autore è Jean Siméon Chardin (Parigi 1699, 1779). Un pittore al quale ho pensato moltissimo in queste settimane di silenzio e di vita forzatamente casalinga. Chi ha avuto la fortuna di poter stare chiuso in casa (grazie ai molti che hanno lavorato, comunque, per noi) ha riscoperto in queste settimane il silenzio e il piacere di dedicarsi a piccole cose, ma anche l’importanza di cose che avevamo dato molto per scontate. Questo fa Chardin. In un’epoca in cui chi voleva emergere dipingeva ‘la storia’ – che fosse reale o mitologica ma una narrazione doveva esserci – lui sceglie il silenzio, la poesia di piccole cose quotidiane; questo non gli impedisce di raggiungere un buon successo e nel 1728 è ammesso all’Accademia Reale di Pittura e Scultura, in seguito espone con regolarità al Salon del Louvre dove ottiene l’apprezzamento del pubblico e la ammirazione sconfinata di Denis Diderot.
Chardin mette al centro dei suoi dipinti oggetti qualunque: terrecotte, frutta, barattoli e piccole tazze, brioches e qualche fiore, ninnoli di porcellana decorata. E quando sceglie di dedicarsi alla figura umana (negli anni ’30 e ‘40), nei dipinti troviamo una, due persone, mai di più. Ragazzi che giocano con il volano o le bolle di sapone, garzoni e cameriere persi nelle occupazioni di ogni giorno. Gente qualsiasi, così come gli oggetti sono quelli di ogni giorno. Non ci sono storie da raccontare, ma attimi da conservare.
Jean Siméon Chardin, particolare da
Il barattolo di albicocche - 1758. Art Gallery of Ontario, Toronto (olio su tela ovale) © Art Gallery of Ontario

E se, quando guardiamo una storia, possiamo immaginare poco perché molto è già detto, dipinti come questo aprono un mondo: sono gli avanzi di una colazione appena fatta, o invece qualcuno sta preparando uno spuntino pomeridiano, cosa nascondono quei pacchi alla destra del dipinto, zucchero forse? Oppure cosa? Immaginiamo un’ampia cucina esattamente qui dove siamo noi oppure, forse, questi oggetti sono appoggiati alla madia di una sala, semplice certo, con le pareti dipinte di ocra; e quel manico del coltello che sporge verso di noi, oltre a dare il senso di profondità dell’immagine sembra invitarci ad entrare. Ci affascina il gioco dei riflessi, sul barattolo di vetro - di un verde intenso come quelli delle dispense delle nostre nonne – e sui calici trasparenti, illuminati da bagliori appena colorati che li legano in una poetica armonia cromatica agli altri oggetti sulla tavola.
Un pittore straordinario Chardin, forse oggi meno conosciuto di quanto dovrebbe. Il disegno è quasi del tutto assente, sono i colori che fanno l’immagine e l’atmosfera silenziosa e atemporale di questa composizione: beige marrone crema ocra con qualche tocco di azzurro e la piccola nota rossa del decoro delle tazze. Indispensabile soffermarsi a guardare, i colori ci appaiono quasi vellutati, i riflessi e gli effetti di luce incantevoli. Una tecnica eccezionale ci fa percepire la diversità dei materiali: lo sciroppo denso che avvolge le albicocche, il vetro dei bicchieri, la sottile porcellana delle tazzine e perfino la crosta croccante delle focacce che hanno lasciato qualche briciola vicino al coltello. E poi la carta che avvolge i pacchi, ruvida e una nuvola di vapore appena percepibile che sale dalla tazza in primo piano. Chardin fa tutto questo con il colore steso in pennellate che si sovrappongono, che sfumano definendo le ombre e la sostanza di questi oggetti che all’improvviso ci sembrano bellissimi e importanti, tutt’altro che semplici e banali, sottratti all’anonimato della quotidianità.
Jean Siméon Chardin, particolare da Il barattolo di albicocche - 1758. Art Gallery of Ontario, Toronto (olio su tela ovale) © Art Gallery of Ontario

A dispetto dell’apparente facilità di questa immagine Chardin resta un pittore inafferrabile: questo barattolo di albicocche riesce a fermare per sempre un attimo di vita e al tempo stesso sembra un’apparizione fugace, i contorni poco definiti, i colori sfumati lasciano la sensazione dell’impermanenza. Un messaggio - a mio parere - resta per sempre, imparare a guardare le cose anche le più semplici, perché hanno una magia che non ti aspetti.
Charles-Nicolas Cochin amico e primo biografo di Chardin racconta che il pittore dicesse: “.. ma chi vi ha detto che si dipinge con i colori! … ci si serve dei colori, ma si dipinge con il sentimento.”. Non è necessario aggiungere altro.



mercoledì 13 maggio 2020

Il 2020? E' anche l'anno di Modigliani - Ritratto di Lunia Czechowska

Nel giugno del 1916 Zbo mi aveva portato ad un’esposizione di Modigliani .. uscendo eravamo andati alla terrazza della Rotonde con degli amici pittori. Rivedo ancora un ragazzo bellissimo che attraversava il boulevard Montparnasse. Portava un cappello di feltro nero, un abito di velluto, una sciarpa rossa. Dalle sue tasche spuntavano delle matite e teneva sottobraccio un’enorme cartella di disegni; era Modigliani. Venne a sedersi accanto a me. Fui colpita dalla sua eleganza, dal fascino e dalla bellezza dei suoi occhi. Era al tempo stesso semplice e nobile…”. Così Lunia Czechowska qui ritratta da Amedeo Modigliani (Livorno 1884 - Parigi 1920) nel 1919 descrive il suo primo incontro con il pittore. Era la moglie di uno degli amici di Zborowski (lo Zbo della citazione) poeta polacco che fu uno dei mercanti di Modigliani.
Il 2020 non è solo l’anno di Raffaello ma anche l’anno di Modigliani, scomparso a Parigi nel gennaio del 1920 a soli 36 anni, ucciso da una salute cagionevole che lo tormentava fin da ragazzo e da una vita sregolata – anche se non così estrema come è stata poi descritta da un’inutile mitografia fiorita intorno a questo artista.
Si può amare leggere e rileggere un libro perchè ha una trama avvincente, dei personaggi indimenticabili oppure perché, anche se la narrazione è semplice, è capace di creare un’atmosfera che ci affascina e quello che ci interessa non è il racconto in sé ma il sogno che lo scrittore sa creare in noi. Bene, sono convinta che se i dipinti di Modigliani fossero un libro apparterrebbero a questa seconda categoria. Le opere di Modigliani non hanno la complessa e suggestiva tessitura cromatica dei Monet di quegli anni (Claude Monet muore 6 anni dopo, nel 1926 e in quegli anni stava realizzando le straordinarie ninfee de L’orangerie), né la potente carica creativa di Picasso o la forza espressionistica di Van Gogh ma con una tavolozza limitata a pochi colori e una linea elegante e sinuosa i ritratti di Modigliani - solo apparentemente facili - hanno un fascino senza tempo e ci restituiscono l’immagine di un’epoca. Sono ritratti di musicisti, pittori, mercanti d’arte, poeti e poetesse, amici e conoscenti che animavano Montparnasse, il nuovo centro della bohème parigina che all’inizio del ‘900 aveva sostituito Montmartre. I ritratti di Modigliani sono accomunati dal suo stile essenziale e da un velo sottile di malinconia ma tutti percettibilmente diversi uno dall’altro, ne avvertiamo le diverse personalità, li guardiamo e sembra di sentire l’eco di animate discussioni sul futuro dell’arte e il destino della pittura. E sono allo stesso tempo attualissimi.
Amedeo Modigliani, Ritratto di Lunia Czechowska di profilo - 1919. Collezione privata (olio su tela)


Il profilo di Lunia è definito da una linea sottile e morbida, emerge sullo sfondo fatto di rapide pennellate grige e verde chiarissimo. Pochi tratti e una zona piatta di colore bruno bastano a suggerire i capelli raccolti in uno chignon semplice ma curato che lascia scoperto il collo lungo e flessuoso. La bocca è sottile e gli occhi sono identificati da chiazze di colore azzurro pallido dalle quali sembra provenire una tenue luce che le illumina il viso. Le palpebre sembrano vagamente colorate da un trucco discreto e la camicia bianca scivola sulle strette spalle della donna e termina in una profonda scollatura. Chi direbbe che è il ritratto di una donna di cento anni fa? Lunia in una parola sola è moderna. Non sono d’accordo con chi sostiene che i ritratti di Modigliani siano solo ‘superficie’, che non ci sia alcuna profondità psicologica e che a lui interessasse solo il tratto grafico in sé e per sé: Lunia ha un viso straordinariamente elegante, un’espressione silenziosa ma decisa, una presenza impossibile da ignorare.
Modigliani, dopo un decennio di ricerche, segue senza più incertezze un percorso artistico del tutto personale che non consente di inquadrarlo in nessuna delle avanguardie artistiche del suo tempo. Era un uomo colto, appassionato di filosofia, musica e poesia, dipinse quasi esclusivamente ritratti, forme essenziali caratterizzate da linee morbide e allungate, un amalgama complesso di suggestioni tanto diverse: l’eleganza lineare della pittura senese del Trecento, la pura essenzialità dell’arte primitiva – egizia in particolare, in questa Lunia sembra di rivedere una moderna NefertitiE, ancora, si percepisce la sintesi operata da Cezanne, l’influenza della sua infaticabile ricerca dell’essenza delle cose. La pittura di Modigliani però è meno concentrata sul volume e più sull’armonia, sulla bellezza e sull’equilibrio. E’ un ritmo sottile che alterna linee ondulate e linee allungate, lo spazio occupato dalla figura e quello dello sfondo, colori chiari e tinte meno luminose. L’effetto è quello di una bellezza senza tempo.

lunedì 20 aprile 2020

Eduard Manet - Sur la Plage - Musée d'Orsay Parigi


Da sempre sono innamorata della pittura perché sono convinta che la pittura - o forse certa pittura, se non tutta – consenta di ampliare i nostri orizzonti e di vedere il mondo in un modo diverso da quello frettoloso e superficiale con il quale lo guardiamo di solito. Certo ‘frettoloso’ non è una parola adatta a questo nostro tempo di forzata assenza di movimento, chissà se e quanto cambieremo quando potremo di nuovo uscire e guardarlo questo nostro mondo. Di sicuro adesso si sente il bisogno di guardare fuori, di sognare quello che ora è impossibile, una passeggiata in montagna, una corsa in un prato, un pomeriggio sulla spiaggia. Qui oggi è una giornata grigia e ventosa, ma è comunque pesante stare chiusi in casa, bello sarebbe respirare l’aria frizzante del vento sul mare. Per questo mi è venuto in mente questo dipinto di Eduard Manet (Parigi 1832, 1885), perché a me il mare piace soprattutto fuori stagione, quando il sole non è accecante, la spiaggia è quasi deserta esattamente come in questa immagine. 
Eduard Manet, Sur la plage - 1873. Musée d'Orsay, Parigi (olio su tela) 

La luce è quella fredda del nord, il vento sospinge le vele delle barche in lontananza, Madame Manet legge al riparo di una veletta di mussola leggera. Manet dipinse questo quadro nel 1873 a Berck-sur-Mer nel Nord della Francia. Non è un paesaggio, Manet non era un paesaggista, ma questo è uno dei momenti in cui la sua pittura si avvicina di più alla pennellata rapida e vivace degli impressionisti. Anche se molti studi dimostrano che Manet non improvvisava quasi mai, correggeva e ricorreggeva tornando molte volte sulle proprie opere, ma con una tecnica straordinaria che non ci fa scoprire ad occhio nudo il lavoro di estrema rifinitura, sembra anzi convincerci del contrario, di pennellate vivaci, frutto di una felice improvvisazione.
Eduard Manet, particolare da Sur la plage - 1873. Musée d'Orsay, Parigi (olio su tela) 

La linea dell’orizzonte in questo quadro è altissima e quattro diverse zone di colore ci fanno percepire la spiaggia, il mare color smeraldo con spruzzi di schiuma bianca vicino alla riva e profondamente blu in lontananza, infine il cielo. Non c’è profondità, manca la terza dimensione come nelle stampe giapponesi – così di moda nella Parigi di fine Ottocento- ma il colore è utilizzato in modo così sorprendente che percepiamo il lieve inclinarsi della spiaggia verso il mare, le onde che si sollevano mosse dal vento, il cielo che scompare dietro l’orizzonte. Qualcuno ritiene che il quadro trasmetta malinconia e solitudine perché i due protagonisti sembrano non comunicare, chiusi nel loro mondo. Non sono d’accordo, a me sembra un momento di pace assoluta, lei assorta nel suo libro lui (il fratello di Manet) disteso a guardare il mare.

Eduard Manet, particilare da Sur la plage - 1873. Musée d'Orsay, Parigi (olio su tela) 

Quello che incanta è la qualità della pittura, non c’è disegno, la mano di Madame Monet è una chiazza gialla e il libro è ottenuto con qualche pennellata di colore bianco .. eppure.. eppure ci sembra tutto perfetto e così chiaramente percepibile. E poi ci sono i particolari: la cuffietta vezzosa di madame Monet, la veletta leggera che lascia intravedere il suo profilo, il nastro nero che ci sembra frusciare nel vento e la pantofola ricamata bianco e arancio che spunta da sotto l’abito che ripara Madame dal sole e dal vento. Una facilità e felicità di dipingere, una qualità di pittura straordinaria che ci rammenta quanto Manet amasse Velazquez.
Eduard Manet, particolare da Sur la plage - 1873. Musée d'Orsay, Parigi (olio su tela) 

Manet non era un impressionista non dipingeva gli effetti mutevoli della luce e raramente lavorava en plein air. In questo caso però alcuni granelli di sabbia rimasti intrappolati nel colore ci dicono che il quadro è stato dipinto sulla spiaggia, possiamo immaginare il cavalletto di Manet piantato nella sabbia e farci trasportare con la fantasia di fronte a quel mare verde azzurro, sulla costa del Nord della Francia, non lontana dalla Normandia. E sappiamo dalle lettere e dai ricordi degli artisti che quei luoghi erano celebri non solo per la bellezza dei paesaggio, il colore cangiante del mare e il vento che sferzava le scogliere ma anche perché erano animati da locande in cui il cibo era semplice ma ottimo, come alla Ferme de Saint-Siméon – frequentata da Boudin, Monet, Jongkind .. - che fino agli anni '60 dell’Ottocento era stata gestita da mère Toutain: lì gli artisti si riposavano gustando sidro di mele e gamberetti freschi. Ecco che un dipinto come questo sa raccontare molte storie, se lo si guarda con occhi attenti: un pomeriggio di libertà sulla spiaggia, le barche che si rincorrono, un pittore alle prese con il vento che schizza granelli di sabba sulla sua tela, una boule di sidro frizzante e fresco al tramonto. Ci fa sognare tutta la libertà che vorremmo adesso e sperare che arrivino presto tempi migliori.

domenica 5 aprile 2020

Nell'anno di Raffaello - Raffaello SANZIO - La Madonna Sistina - Gemäldegalerie Dresda


Un pesante tendaggio verde si apre e un soffio di vento spinge avanti la Madonna con il Bimbo in braccio. Lei appoggia i piedi nudi su un tappeto di soffici nuvole, il Bimbo Gesù intimidito ha i capelli scompigliati dal vento leggero – che muove anche il manto e l’abito di Maria- e un po’ impacciato si stringe una gamba con la manina. Ci guardano fissi negli occhi, la tenda non è ancora completamente aperta, tra un momento forse si aprirà del tutto e la Madonna farà un altro lieve passo verso di noi. O forse no. Si fermerà continuando a guardarci, rendendo impossibile per noi distogliere lo sguardo da questa incredibile apparizione. Maria è molto giovane, ha grandi occhi bruni e il viso regolare e bellissimo di tutte le donne di Raffaello (Raffaello Sanzio, Urbino 1483 - Roma 1520)  divine e non; misteriosa e leggiadra ha la testa circondata da un’aureola quasi invisibile. Ha una spiritualità intensa nei suoi occhi tristi che non trovo in altri dipinti di Raffaello, nessun’altra delle sue Madonne è come questa un’immagine della Divinità. Molte sono bellissime, materne, questa è diversa. Viva e spirituale al tempo stesso. Anche il Bimbo Gesù ha un’espressione nuova, è timido e sgomento, ci fissa con i suoi occhi grandi e spauriti, è paffuto, come i due angioletti appoggiati sulla balaustra, ma ha una natura diversa da loro che assomigliano molto più a bimbi veri di questo piccolo Gesù così divino.
Raffaello Sanzio, Madonna Sisitina - 1512 - 1513 ca. Gemäldegalerie, Dresda (olio su tela) 

Ai lati della Madonna due Santi: Sisto e Barbara. Sisto che ha forse le fattezze del papa Giulio II della Rovere – il committente di quest’opera- ha tolto la tiara in segno di rispetto per Maria e l’ha appoggiata sulla balaustra, una sorta di parapetto che separa il nostro spazio terreno e concreto da questa straordinaria apparizione.
Sisto ha lo sguardo rivolto alla Madonna e con un gesto della mano indica fuori dal quadro, verso di noi, forse sta invitando Maria a guardare proprio noi. Dall’altra parte Santa Barbara avvolta in un sontuoso abito dai colori raffinatissimi: arancio verde azzurro grigio, ha una acconciatura elegante, è inginocchiata con grazia ed ha lo sguardo rivolto verso il basso – ma dove? Verso i due angioletti o ancora fuori del quadro verso qualcosa che era al di sotto di questa incantevole pala d’altare?
Raffaello Sanzio, Santa Barbara - particolare da Madonna Sisitina - 1512 - 1513 ca. Gemäldegalerie, Dresda (olio su tela) 



E poi ci sono i due angioletti, talmente celebri e riprodotti ovunque – su scatole di cioccolatini, ombrelli, quaderni, tappetini per il mouse… - da essere diventati, ahimè, un’immagine a se stante, completamente slegata dal contesto al quale appartengono e che molti non riconducono più nemmeno a Raffaello e ad un dipinto che ha più di 500 anni. Sono affacciati con aria disinvolta al parapetto al fondo della tela, l’uno a braccia conserte, l’altro si appoggia curioso su un gomito, entrambi hanno lo sguardo rivolto verso l’alto, i capelli spettinati e me li immagino in punta dei piedi che tentano di arrivare alla balaustra per vedere cosa sta succedendo là in alto; quasi che qualcuno avesse chiesto loro di affacciarsi da quel parapetto e restare fermi lì fin tanto che la tenda verde resta aperta per noi. E loro aspettano, un po’ curiosi un po’ annoiati, molto più ‘bambini veri’ che angeli.     

Raffaello Sanzio,  Due Angeli - particolare da Madonna Sisitina - 1512 - 1513 ca. Gemäldegalerie, Dresda (olio su tela)

E dunque cosa rappresenta questa tela?
Descritta così sembrerebbe una classica ‘sacra conversazione’. La Madonna con il Bambino accompagnata da Santi in contemplazione della coppia Divina. Di ‘classico’, però c’è davvero poco. Raffaello il più classico dei pittori ha dato vita ad un’immagine straordinariamente innovativa. Non c’è da stupirsi: Raffaello è uno dei vertici di un mondo estremamente colto, raffinato; a Roma, alla corte papale di Giulio II, intreccia relazioni ad altissimo livello con i poeti i letterati e i filosofi di cui il Papa, guerriero certo, ma anche amante della cultura e del bello, amava circondarsi. 
E’ una ‘sacra conversazione’ che esclude – o quasi – ogni elemento terreno: non è ambientata all’interno di una chiesa – come la Pala Montefeltro di Piero della Francesca ad esempio – né in un giardino fiorito, non ci sono elementi architettonici che consentano di collocare questa ‘visione’ in un qualche posto di questa Terra. Perché anche la torre che si intravede dietro Santa Barbara non ha niente di terreno, non è un’architettura ma solo l’attributo della Santa, esattamente come le chiavi lo sarebbero di Pietro. Raffaello che in anni recentissimi aveva inventato le architetture bramantesche e perfettamente misurabili delle stanze vaticane qui affida la sua Madonna con Bambino interamente al cielo, ad uno spazio indefinito e totalmente spirituale, che resta però chiaramente percepibile, profondo, misurabile e concreto anche in assenza di punti di riferimento ‘terrestri’. Un cielo punteggiato da decine di angeli quasi invisibili, tutto si svolge in una dimensione celeste e ultraterrena; se fosse stata dipinta 200 anni prima le figure avrebbero trovato spazio su un sontuoso fondo dorato. L’effetto, solenne e spirituale è lo stesso.

Ma due sottili punti di contatto con il nostro mondo ci sono. Il tendaggio verde che si apre per mostrare la Madonna è pesante, ha una sua gravità terrestre tanto da incurvare l’asta che lo sostiene che cede un po' sotto il suo peso – alla quale è appeso con anelli di ferro che sono uno degli incantevoli dettagli di questo dipinto. E poi c’è la balaustra di legno alla quale si appoggiano i due angioletti e sulla quale è posata anche la tiara di Papa Sisto, sormontata dalla ghianda dei della Rovere. Quegli angioletti che, anche se non ci guardano, sono affacciati verso di noi, in qualche modo ci tirano dentro la scena, sono un ponte – è stato osservato – tra il nostro mondo della Terra e il mondo Divino di Maria e Gesù. Perché al di là della balaustra ci siamo noi ad ammirare in silenzio questa visione e Papa Sisto sembra indicare noi alla Madonna e al Bambino che ci guardano, così da farci sentire coinvolti e partecipi di questa apparizione non semplici spettatori di una ‘visione’.
E’ il gioco sottile degli sguardi che rende indimenticabile questo dipinto, lasciandolo per noi un enigma: la tenda che si apre permette a noi una visione del mondo celeste o consente a Maria e al Bambino di vedere noi e infondere al nostro mondo coraggio e speranza?
Raffaello Sanzio, Madonna con Bambino - particolare da Madonna Sisitina - 1512 - 1513 ca. Gemäldegalerie, Dresda (olio su tela)

E’ un quadro – tra l’altro dipinto su tela non su tavola – che ha una storia intricata e resta appunto difficile da comprendere fino in fondo. Dipinto da Raffaello a Roma nel 1512 su committenza del papa Giulio II della Rovere fu da questi donato alla chiesa di San Sisto a Piacenza dove rimase quasi sconosciuto – o comunque assai meno noto delle celeberrime opere del maestro di Urbino – fino al 1754 anno in cui i monaci benedettini lo vendettero ad Augusto III di Sassonia che lo portò a Dresda dove adesso si trova. E’ in Germania che l’opera conosce la prima grande fortuna critica e moltissimi sono i filosofi, gli storici, gli intellettuali dell’area tedesca e russa – Winckelmann, Goethe, Hegel e Dostoevskij per citarne solo alcuni – che si sono appassionati e commossi di fronte a questo dipinto.
E sulla difficoltà di comprendere fino in fondo il senso di questa ‘visione’ Martin Heidegger ricordava a tutti che “La [Madonna] Sistina dovrebbe stare in una particolare chiesa di Piacenza non in senso storico-antiquario ma secondo la sua essenza di immagine. In conformità a questa, l’immagine sempre esigerà di essere in quel luogo”.  Ovvero: sradicare le opere dal contesto per cui erano nate ci ha fatto perdere molti punti di riferimento per intenderle correttamente.
Data la situazione attuale, poter visitare la mostra organizzata dalle Scuderie del Quirinale per i 500 anni della morte dell’artista – dove peraltro questo dipinto inamovibile non è presente – resterà forse un sogno, per me come per molti altri.


Il sito ufficiale della mostra 1520 - 1483 Raffaello alle Scuderie del Quirinale - Roma
Tutti i programmi RAI dedicati al centenario di Raffaello 5 e 6 aprile