Amo profondamente la pittura ed ogni forma di arte.

Il mio blog è per coloro che sanno scoprire cose nuove anche a pochi km di casa, sono curiosi della vita e credono che la felicità si possa conquistare amando le piccole cose.

lunedì 24 giugno 2024

ATTIMI - Melchiorre Gherardini (il Ceranino) - Lo Sposalizio della Vergine

A metà strada tra le vetrine scintillanti della Galleria Vittorio Emanuele e i capolavori internazionali della Pinacoteca di Brera, non distante dai palazzi delle banche e della finanza c’è a Milano la piccola Chiesa di San Giuseppe. Un po’ arretrata rispetto alla strada, preceduta da una minuscola piazza quadrata, forse viene ignorata o quasi da chi arriva a Milano per fare shopping, dai turisti interessati ma frettolosi che si dedicano ai dipinti imperdibili di Brera e spesso anche dagli stessi milanesi. Non so quanti di quelli che abitano o lavorano stabilmente a Milano abbiano avuto la curiosità di entrare in questa piccola chiesa. Bene, se non lo avete ancora fatto, entrate. L’interno è in penombra, ma subito si è attratti dal viso chiarissimo e luminoso, quasi color perla che brilla alla nostra sinistra nella prima cappella. E’ quello della Madonna nel dipinto di cui parlo oggi: lo Sposalizio della Vergine attribuito al Ceranino.

Melchiorre Gherardini detto il Ceranino (Milano, 1607 –1668) fu allievo del pittore Giovan Battista Crespi, noto con il nome di Cerano. Alla morte del Crespi nel 1632 Gherardini ne sposò la figlia, assunse il soprannome di ‘Ceranino’ a sottolineare il legame anche professionale con il suocero e ne ereditò la bottega e le commissioni rimaste in sospeso. E’ certo infatti che questo dipinto fosse stato commissionato al Cerano nel 1629. La critica ritiene che sia opera del Gherardini, realizzata quasi per intero dopo la scomparsa del suocero, al quale forse si può attribuire solo la progettazione e il disegno.

Melchiorre Gherardini (il Ceranino) - Lo Sposalizio della Vergine  (1632 ca. Milano Chiesa di San Giuseppe) Courtesy Artgate Fondazione Cariplo

 

Il tono è molto scuro, la scena affollata e vagamente soffocante, il volto lunare e le mani altrettanto bianche di Maria si impongono con forza alla nostra attenzione. La storia la conosciamo e i protagonisti ci sono tutti anche se in parte affossati nell’ombra che dà il tono a tutto il dipinto: gli sposi, il Sacerdote, la colomba dello Spirito Santo e i pretendenti delusi. Improvvise macchie di luce perlacea, il viso di Maria, l’avambraccio di uno dei pretendenti, il bimbo che ai piedi degli sposi abbraccia un cagnolino costruiscono una sorta di percorso luminoso che ci consente di ‘leggere’ la storia. Maria e Giuseppe vestono i colori tradizionali: rosso e blu per Maria, giallo e un blu intenso che qui tende al grigio per Giuseppe (gli stessi colori degli abiti del più celebre Sposalizio di Brera di Raffaello, a poche centinaia di metri da qui). La Madonna è infagottata in un abito troppo ampio, che si dilata in pieghe larghe ed elaborate: gli ultimi sussulti dello stile della ‘Maniera Internazionale’, di cui avvertiamo l’eco in gran parte del dipinto. La posa affettata con la quale Giuseppe porge l’anello, le braccia sollevate in modo teatrale dal sacerdote a sottolineare il miracolo, l’incrocio delle mani al centro del quadro. A destra uno dei pretendenti in una posa molto artificiosa spezza con il ginocchio il suo bastoncino che non ha prodotto fiori (e quindi non era lui il prescelto) e si volge verso gli sposi rovesciando la testa all’indietro. Una fantasiosa traduzione della figura serpentinata tanto cara alla maniera. Ed una citazione – forse – da Raffaello che nel suo Sposalizio inserisce una figura che fa lo stesso gesto, spezza con il ginocchio il suo inutile ramoscello, certo con più grazia e meno artificio: Ceranino potrebbe aver visto qualche stampa tratta dal dipinto di Raffaello (all’epoca ancora a Città di Castello, nella chiesa per la quale era stato dipinto). Le citazioni o forse le suggestioni non si fermano qui: il girotondo degli angeli in alto richiama alla mente gli angioletti agitatissimi delle Pale di Lorenzo Lotto e i vortici delle cupole di Correggio, il bimbo o angioletto che abbraccia con forza il cagnolino rammenta il piccolo e molto energico San Giovannino che nella pala di Santo Spirito del Lotto abbraccia con foga un agnellino. Ceranino è pur sempre un lombardo e non dimentica il ‘vero di natura’, l’attenzione per il vero visibile e il quotidiano: gioca con i riflessi cangianti della lampada sopra San Giuseppe, dipinge gli occhi buonissimi di quel cagnolone che sta guardando proprio noi, mette coraggiosamente in primo piano sulla sinistra un grande piede che quasi esce dalla tela e conquista lo spazio dove siamo noi.

Possiamo guardarla per ore, ma qualcosa continuerà sempre a sfuggirci: non possiamo sapere come la vedevano i devoti milanesi che entravano qui nei secoli passati, quando la pala era stata appena dipinta e profumava ancora dei colori appena stesi. Non possiamo forse nemmeno immaginare cosa percepissero in questo Sposalizio tutto avvolto nell’ombra, quasi notturno, quali idee e sensazioni avrà suscitato in loro. 

La critica ritiene che non sia una delle opere migliori del Ceranino che d’altra parte non aveva il talento e l’inventiva del Cerano.

A mio parere è però uno di quei dipinti di fronte ai quali non si può restare indifferenti. Uno dei piccoli gioielli che vale la pena di riscoprire e che si trovano un po’ ovunque nelle nostre città, nei paesi e dispersi nelle campagne. Basta oltrepassare una porta che abbiamo sempre ignorato per scoprirli, forse non si trovano nei libri di storia dell’arte, ma hanno qualcosa che li rende affascinanti e indimenticabili. A confermare che la bellezza è ovunque quando si prova a cercarla. Ed è per questo che ho dedicato Attimi a questo ‘Sposalizio’ .

lunedì 15 aprile 2024

ATTIMI - Vincenzo Campi - La Fruttivendola

Si può apprezzare ed amare un dipinto (come qualsiasi altra cosa del resto) anche solo per alcuni suoi particolari, per un singolo dettaglio. E nell’opera di oggi, la Fruttivendola di Vincenzo Campi c’è a mio parere un dettaglio che la rende indimenticabile, per cui ho scelto di parlarne nella rubrica ATTIMI: il cesto ricolmo di baccelli (questo è il termine toscano, penso che in italiano si chiamino ‘fave’) appena colti che si mischiano ai fiori rosa con i petali delicatissimi e fragili.

le foto dei dettagli sono mie



Vincenzo Campi (Cremona, 1536 - 1591) è il più giovane dei tre fratelli Campi (Giulio e Antonio gli altri due), protagonisti con la loro bottega della vivace stagione artistica che caratterizza Cremona alla fine del XVI secolo. Città di confine, Cremona è il crocevia di suggestioni diverse: la ‘maniera’ di derivazione raffaellesca e michelangiolesca, l’attenzione al colore di matrice veneta, la sempre presente vocazione naturalistica tipica dell’arte lombarda.

Per l’attenzione tutta lombarda al ‘dato di natura’ Mina Gregori in un saggio del 2004 faceva due considerazioni: “… la Lombardia era una società contadina di origine feudale, anche se ebbe vivaci e battagliere città comunali, la sua base contadina serve a spiegare l’atteggiamento fondamentalmente empirico..” e poi ancora “..vista nell’area allargata padana la Lombardia usufruì della cultura delle grandi università di Pavia e Padova, la cui tradizione .. di filosofia aristotelica impresse alla civiltà del Nord, ritengo, un immanente rapporto con la realtà sensibile che esercitò un decisivo influsso sulle arti...”.

Ebbene mi sembra che in questa Fruttivendola (dipinta intorno al 1580) si possano rintracciare entrambe queste suggestioni: la matrice contadina evidentissima nella abbondanza di frutta e verdura riprodotta dal pittore quasi a significare la ricchezza di una terra generosa e la sapienza scientifica aristotelica per la attenta definizione botanica con la quale vengono rappresentate le diverse varietà.

Vincenzo Campi - La Fruttivendola  (1580 ca. Milano Pinacoteca di Brera)


Il dipinto è tradizionalmente intitolato La Fruttivendola, anche se qui non c’è traccia di mercato, vediamo solo una giovane donna con una bella camicia bianca dal collo pieghettato e una sorta di abito contadino della festa. E’ circondata da cesti, vassoi e ciotole piene di frutta e ortaggi: ci sono pesche, fichi, ciliegie, piselli e zucche, carciofi asparagi e il cesto di baccelli che trovo bellissimo e molto altro. Frutti appartenenti a stagioni diverse dell’anno, difficile quindi pensarli tutti insieme sul banco di un mercato. Sono riprodotti con grande abilità e un tessuto pittorico attento alle sfumature di colore e di luce. Osservate anche la varietà dei recipienti: piccole ceste di vimini intrecciato, vassoi di ferro, ciotole di ceramica o coccio, la grande tinozza di legno che contiene l’uva in primo piano. I cesti intrecciati sono tutti differenti così come i decori delle ciotole di coccio. Un campionario di oggetti e di frutta in cui Vincenzo Campi dimostra tutta la sua abilità nel riprodurre particolari minuti e la differenza tattile dei materiali.

Sicuramente meno ‘naturale’ e più di maniera è il gesto della ragazza che solleva con un certo artificio un grappolo di uva, l’accensione improvvisa dei nastri rossi che ornano le maniche dell’abito, il sorriso vagamente accennato, gli occhi che sembrano non guardare niente e il suo volto un po’ convenzionale, nel quale è difficile scorgere un ritratto al naturale. Suggestioni ancora diverse nel paesaggio sullo sfondo in cui la nebbia sembra avvolgere un paese in un lontano orizzonte, verso il quale il nostro occhio è attirato dalle torsioni di un piccolo corso d’acqua. Alla destra della ragazza invece due piccole figure una contadina piegata a raccogliere la frutta che un ragazzo fa cadere dall’albero.

Quale è il significato di un’opera come questa? La critica la inserisce all’interno di un gruppo di quattro tele che rappresentano ‘scene di genere’ (le altre tre ritraggono una pescivendola, una pollivendola e una scena di cucina) ed è facile associare a immagini di questo tipo (come per i coevi dipinti fiamminghi) significati allegorici - ad esempio riferimenti ai quattro elementi -  moraleggianti, che ricordano la vanitas, la fragilità della vita o complessi riferimenti cristologici.

Qualunque sia il significato vero o presunto di questo dipinto, resta intatto il fascino e la delicatezza con cui Campi ha riprodotto ogni singolo frutto, perfino le piccole more di gelso e la bellezza di quei fiori rosa che visti da vicino (se siete di Milano o ci passate, andate alla Pinacoteca di Brera e osservateli da vicino) sono proprio indimenticabili.

Ovunque si legge che questo è uno dei precedenti importanti per la nascita della natura morta come genere autonomo, qui siamo ancora agli inizi: una scena di genere nella quale le diverse qualità di frutta e ortaggi sono separate l’una dall’altra, ciascuna in un proprio recipiente e non raccolte in una composizione unitaria (come nella Canestra di Caravaggio ad esempio), mostrate a chi guarda come in una sorta di ‘capriccio vegetale’ in cui cose che di fatto in natura non si possono trovare tutte insieme sono qui esposte all’occhio divertito e curioso di chi guarda.

La scheda del dipinto sul sito della Pinacoteca di Brera

giovedì 14 marzo 2024

Moroni (1521-1580). Il ritratto del suo tempo

Una qualsiasi mostra allestita alle Gallerie d’Italia a Milano in piazza della Scala sicuramente incanta lo spettatore che entra e si trova circondato da un ambiente molto suggestivo. Ci troviamo all’interno di Palazzo Beltrami, ex sede della Banca Commerciale Italiana, costruito con eleganza e impiego di materiali di pregio dall’architetto Beltrami a inizio ‘900. Si rimane affascinati dalla bellezza del salone di ingresso in cui ci si muove su un pavimento prezioso illuminato dall’alto da un lucernario con un gioco sapiente di alternanza tra luci e ombre. Entrate nel tardo pomeriggio verso il tramonto.

L’effetto magico è ancora maggiore se la mostra non è una ‘qualsiasi mostra’, ma un’esposizione imperdibile come quella attualmente in corso che ha per protagonista Giovanni Battista Moroni (1521 ca, 1580), uno dei più fini ritrattisti del Cinquecento.

Giovanni Battista Moroni - Ritratto di podestà (1558-1562 Bergamo Accademia Carrara)


Giovanni Battista Moroni nacque ad Albino in provincia di Bergamo poco dopo il 1521 in quello che era il dominio di terra della Serenissima Repubblica di Venezia, al confine con lo stato di Milano, all’epoca governata dagli Spagnoli. Questa vicinanza anche culturale di Bergamo a Milano fa si che Moroni, veneto per nascita, si inserisca in quella tradizione figurativa tipica del territorio lombardo che Roberto Longhi definiva ‘pittura della realtà’ - ovvero “la pittura come registrazione del visibile” nelle parole di Longhi– che inizia con Foppa e attraverso, tra gli altri, Moretto, Savoldo, Moroni arriva fino a Caravaggio. La tesi longhiana (Moroni tra i precedenti di Caravaggio) sembra ribadita anche dai curatori, due veri specialisti del pittore di Albino: Simone Facchinetti e Arturo Galansino.

La mostra rende conto di tutta l’attività di Moroni che non fu solo ritrattista ma anche pittore di pale d’altare e dipinti a tema religioso. Non una monografica in senso stretto però: le opere di Moroni sono messe a confronto con quelle di artisti a lui contemporanei per inquadrare il contesto in cui il pittore operava e consentire utili raffronti.

Il percorso espositivo si apre con grandi pale d’altare sistemate in modo scenografico nel salone d’ingresso in cui l’attenzione viene catturata per la verità non da un’opera di Moroni, ma del suo maestro, il bresciano Alessandro Bonvicino detto il Moretto (presso la cui bottega Moroni è documentato nei primi anni 40; in mostra è presente un taccuino di appunti raccolti da Moroni negli anni di apprendistato): la grandiosa Madonna con il Bambino in trono tra i santi Eusebia, Andrea, Domneone e Domno

Alessandro Bonvicino detto il Moretto - Madonna con il Bambino in trono tra i Santi Eusebia, Andrea, Domneone e Domno (1536-1537, Bergamo Chiesa di Sant'Andrea Apostolo)

Il dettaglio del vassoio di peltro da cui è scivolato via un frutto e gli abiti dei protagonisti – quello di velluto rosa e raso color oro di Santa Eusebia - hanno una presenza coinvolgente; notate anche i due santi sulla destra: si tengono familiarmente sottobraccio, un dettaglio amabilissimo. E sempre Longhi vedeva nel vassoio ricolmo di frutta un indubbio precedente per la nascita del genere della natura morta (che ancora una volta porta al nome di Caravaggio e alla sua Canestra dell’Ambrosiana).

E’ impossibile raccontare il fascino di questa mostra in poche righe, mi limito qui a qualche nota e pochi suggerimenti per poterla apprezzare come merita. Le opere sono moltissime e coprono più di 30 anni di attività del pittore.

Sulle pareti si alternano decine di ritratti, solo visi colti in un attimo, mezze figure o grandi e spettacolari ritratti a figura intera. E se per le opere religiose il Moretto fu il maestro reale e l’ispiratore per tutta la carriera di Moroni, Lorenzo Lotto fu l’ideale punto di riferimento per i ritratti. Il Ritratto di Giovane di Lorenzo Lotto proveniente dalle Gallerie dell’Accademia ha lo sguardo insondabile e profondo che si ritrova in alcuni dipinti di Moroni, anche se ambientato in una ‘scena’ molto più mossa e variata di quelle che saranno tipiche del pittore di Albino (delicatissimi i petali di rosa, la leggerezza della camicia bianca sotto l’abito nero, le pagine del libro arricciate che sembrano crepitare).

Lorenzo Lotto - Ritratto di giovane Gentiluomo (1530 ca., Venezia, Gallerie dell'Accademia)


Moroni ritrae i suoi modelli senza disegno preparatorio, stendendo direttamente i colori sulla tela e a questo si deve in parte la fresca immediatezza dei suoi ritratti che sono presenze tangibili. Osservateli tutti da vicino, nessuno è uguale all’altro, anche se la struttura compositiva delle opere è simile: uno sfondo in colore neutro per i formati più piccoli, muri sbrecciati e colonne diroccate a ricordare la caducità della vita per i dipinti più imponenti, ma il tono di fondo è sempre tenue in modo da far risaltare la figura del personaggio ritratto, come se intorno al modello circolasse davvero l’aria.

Pochi ritratti sono decisamente frontali, spesso il busto del modello è disposto in diagonale, la testa rivolta verso di noi, una luce radente ad illuminare i tratti del viso. E anche su questa luce ci sarebbe molto da raccontare: non il lume diffuso dei dipinti del rinascimento ‘toscano-centrico’, ma una luce indirizzata, mirata a dare tridimensionalità e risalto al modello. Tutti in qualche modo ci guardano, cercano il nostro sguardo, la nostra attenzione e questo rende anche i ritratti ‘ufficiali’ più accostanti. Confrontate un qualsiasi ritratto di Moroni con il Ritratto del procuratore Jacopo Soranzo di Tintoretto (Jacopo Robusti) sempre in mostra, l’uomo ha lo sguardo rivolto verso un lontanissimo altrove, ci oltrepassa e non intrattiene alcun rapporto con noi, è distante. Un ritratto ufficiale in cui l’importanza del modello è evidenziata anche dall’essere così inafferrabile.

I ritratti di Moroni sono ‘ritratti al naturale’, non idealizzati, non aggiungono niente alle fattezze reali del modello che risultava perfettamente riconoscibile, dipinto così come era, senza i filtri dell’immaginazione, senza mascherare i difetti o una fisionomia poco aggraziata. Tutti inconfondibili: seri, pensierosi, energici, vagamente malinconici a volte elegantissimi, giovani e più anziani, mai distanti. Paradossale che di queste donne e uomini che ci sfilano davanti e che ci sembra di riconoscere tanto sono ‘presenti’ conosciamo pochissimo. Solo in pochi casi la loro storia è giunta fino a noi.

Prendetevi il tempo per visitare questa mostra, senza fretta. Soffermatevi sui particolari, osservate i dettagli, i gioielli delle dame.

le foto dei dettagli sono mie



La donna del Ritratto di donna con ventaglio proveniente da Amsterdam indossa una straordinaria collana di piccole perle intrecciate, un ricco medaglione, il suo abito damascato rosso corallo ha un disegno sontuoso, riprodotto con estrema abilità.

Giovanni Battista Moroni - Ritratto di Donna con Ventaglio (1576-1579 ca., Amsterdam, Rijksmuseum) ©AmsterdamRijksmuseum


Il ventaglio di piume bianche e rosa di Isotta Brembati ha la sofficità di un lussuoso piumino da cipria – Moroni pittore della realtà anche per questa abilità nel riprodurre il valore tattile dei materiali. Come non lasciarsi affascinare dall’abito rosa trapuntato d’argento nel Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (noto anche come Il Cavaliere in rosa) con le scarpette di velluto finemente lavorate e quei fiocchi rosa e argento che trattengono le calze e sembrano appena annodati.


Giovanni Battista Moroni - Ritratto di Gian Girolamo Grumelli (1560, Bergamo, Palazzo Moroni, courtesy Lucrezia Moroni)

E poi una profusione di abiti neri, il nero introdotto da Carlo V alla corte di Spagna aveva raggiunto una diffusione molto ampia al tempo di Filippo II, colore sobrio, elegante ma anche segno di ricchezza perché era complesso e costoso tingere i panni di nero. I neri di Moroni sono lucidi come la seta, morbidi come il velluto, pesanti quando rappresentano stoffe damascate, ricchi di riflessi e toni cangianti. Osservateli tutti. E quanti libri sono presenti in questi ritratti, disinvoltamente aperti tra le mani e allora si intravedono righe fitte di scrittura, appoggiati sui parapetti o impilati sullo sfondo, le pagine nascoste da semplici rilegature tenute strette da strisce di tessuto.





Una parola sui dipinti a tema religioso: pale d’altare e devoti che pregano non riescono ad affascinarci tanto quanto i ritratti, siamo in piena Controriforma, le opere si fanno più convenzionali, regole precise imbrigliano la fantasia degli artisti e certo non rappresentano la parte più suggestiva dell’opera di Moroni. Ancora una volta sono i dettagli a catturare lo sguardo: i colori spesso giocati su tonalità fredde, l’abilità con cui Moroni giovanissimo nella Madonna con il Bambino in gloria e Santi proveniente dalla Cattedrale di Trento rappresenta i guanti di San Gerolamo che sembrano di morbidissima nappa, alcuni ritratti nei dipinti di devozione privata che raffigurano le cosiddette ‘orazioni mentali’.

E da ultimo, a chiudere il percorso, Il sarto, forse il dipinto più celebre di Moroni, atterrato dalla National Gallery di Londra e qui i curatori meritano un grazie speciale per aver fatto arrivare questa opera incantevole. 

Giovanni Battista Moroni - Il Sarto (1572-1575 ca., Londra The National Gallery)


Elegantissimo con una giubba color crema chiusa da una fila di piccoli bottoni e pantaloni a sbuffo rossi, la barba curata, gli occhi grigi è in piedi di fronte al suo tavolo da lavoro. Si volge verso di noi che lo abbiamo interrotto mentre tagliava un panno nero – si vedono i segni del gesso con il quale ha tracciato il modello sulla stoffa – con uno sguardo non infastidito per essere stato interrotto, attento e insieme inafferrabile, come se ci ascoltasse o aspettasse da noi una parola. Perché noi siamo lì di fronte a lui, accanto al pittore che lo sta ritraendo, fissando sulla tela proprio quell’istante. Non sappiamo nemmeno il suo nome ‘Il sarto’, tutto qui, eppure guardatelo e vi sembrerà di conoscerlo da sempre.

La mostra è a Milano alle Gallerie d'Italia  fino all'1 Aprile 2024.